Concludiamo questa giornata che, in gran parte, abbiamo dedicato alla teologia, con l'inizio di un nuovo, breve, appuntamento contenente alcune riflessioni sulla teologia, di Mons. Carlo Molari. Quest'appuntamento occuperà lo spazio il mercoledì, in concomitanza al fatto la Vigna continuerà, in questo determinato giorno settimanale, il suo cammino alla riscoperta della teologia e del rapporto tra fede e ragione. Iniziamo eccezionalmente oggi, per poter domani dedicarci alla celebrazione dell'Immacolata Concezione.
Ecco la prima parte della riflessione sulla teologia cattolica del Mons. Molari:
Fino a qualche decennio fa i teologi cattolici non parlavano della fede di Gesù e, se qualcuno affrontava il problema, lo faceva per negare che Gesù nel suo pellegrinaggio terreno avesse esercitato la fede teologale. Si pensava infatti che Gesù godesse di una conoscenza immediata di Dio e in Dio di tutta la realtà creata, così da non poter esercitare la fede: la Visione glielo impediva. Alcuni giungevano a negarGli anche l’esercizio della speranza teologale. Gesù, che già possedeva la pienezza della grazia, non poteva attendere altro da Dio. (2) S. Tommaso in un primo momento sosteneva l’opinione secondo cui Gesù non avrebbe neppure avuto vere conoscenze sperimentali perché anch’esse erano infuse, poi cambiò idea, (3) ma a proposito della fede continuò a negarla con questa motivazione: “Oggetto della fede, come si è detto nella seconda parte (II-II q. 4 a. 1) è la realtà divina non vista (res divina non visa). Ora l’abito della fede, come ogni altro, riceve la sua specificazione dall’oggetto. Se dunque si toglie l’inevidenza dalla realtà divina, viene meno la fede. Ma il Cristo nel primo istante del suo concepimento ebbe piena visione dell’essenza di Dio... Dunque non ci può essere stata fede in lui” (4).
Tutti i manuali scolastici, fino oltre la metà del secolo scorso hanno ripreso fedelmente questa dottrina. Anzi alcuni teologi giunsero a conclusioni, a dir poco, strane. La scuola carmelitana di Salamanca, ad esempio, attribuì a Gesù la conoscenza di tutte le verità naturali al punto da pensare che egli “non sia stato soltanto il migliore dialettico, filosofo, matematico, medico, moralista o politico, ma anche musicista, letterato, oratore, artigiano, agricoltore, pittore, navigatore, soldato e così via” (5). Senza giungere a questi eccessi altri hanno sostenuto che Gesù fin dall’inizio della sua esistenza terrena, conosceva almeno tutte le cose che riguardavano la sua missione o tutto ciò che in qualche modo aveva relazione con la storia della salvezza.
In questa relazione vorrei mostrare come progressivamente i teologi sono giunti a parlare della fede di Gesù e indicare, in modo sommario, quali profonde conseguenze questo cambiamento ha nell’attuale riflessione sul cammino storico di Gesù, sulla fedeltà all’annuncio del Regno e sullo sviluppo della fede nei suoi discepoli.
Lo faccio in cinque punti: 1. Un po’ di storia recente. 2. Gli argomenti di coloro che difendono la dottrina tradizionale. 3. I riferimenti biblici e la coerenza dogmatica di coloro che parlano della fede di Gesù. 4. Alcune riflessioni sull’oggetto della fede di Gesù e sulle sue dinamiche. 5. Alcuni riflessi nell’interpretazione dell’esperienza di Gesù e nella vita spirituale dei suoi discepoli.
1. Un po’ di storia recente.
Fino agli anni ’60 la teologia e il Magistero della chiesa cattolica attribuivano a Gesù un triplice modo di conoscere la realtà: la scienza beatifica, propria dei santi che godono della visione di Dio e in Lui conoscono tutte le cose, la scienza infusa, propria di alcune persone che, in vista di una particolare missione nella storia, in certe circostanze ricevono doni straordinari dello Spirito, e la scienza sperimentale, ottenuta con l'uso dei sensi e con la riflessione sulle esperienze quotidiane.
Forti resistenze a queste opinioni tradizionali apparvero alla fine del secolo XIX e agli inizi del sec. XX negli scritti dei ‘modernisti’. Nel Decreto Lamentabili (3 luglio 1907) il S. Uffizio condannava la loro dottrina riassunta in questa formula: “non è possibile conciliare il senso naturale dei testi dei vangeli con ciò che i nostri teologi insegnano riguardo alla coscienza e alla scienza infallibile di Gesù Cristo” (6). Condannata era pure l’opinione secondo cui: “il critico non può assegnare a Cristo una scienza illimitata, se non nell'ipotesi, che non è possibile concepire storicamente e che ripugna al senso morale, in cui Cristo abbia potuto avere come uomo la scienza di Dio e ciononostante non abbia voluto comunicare la cognizione di tante cose ai discepoli e alla posterità” (7). Un altro decreto dello stesso dicastero, il 5 giugno 1918, mostrava meno rigore sostenendo solo che si può insegnare con tranquillità (tuto doceri potest) l’opinione che “nell’anima del Cristo vivente fra gli uomini vi sia stata la scienza che possiedono i beati” (8). Ancora nell’Enciclica Mystici corporis (29 giugno 1943) Pio XII affermava che Gesù, in virtù di “quella visione beatifica di cui godeva fin dal momento in cui fu ricevuto nel seno della Madre divina”, aveva un’esplicita conoscenza degli uomini che sarebbero appartenuti al suo corpo mistico in ogni tempo e in ogni luogo. (9) Nel 1965, quando già, come vedremo, era iniziato un cammino teologico in altra direzione, un teologo italiano scriveva con molta decisione: “la dottrina che insegna che l'anima del Cristo dal primo istante della sua creazione godeva della visione beatifica, è dottrina comune nell’ordinario e universale insegnamento della chiesa docente e nel pacifico possesso della fede della chiesa discente. Deve dunque ritenersi come dottrina cattolica, e perciò di fede divina, mentre l’opinione contraria è da ritenersi almeno «haeresim sapiens», se non addirittura come eretica” (10).
In questi ultimi decenni, però, si è accentuata sempre di più il divario fra coloro che continuano a difendere la posizione tradizionale, più o meno adattata alle nuove acquisizioni bibliche, e coloro che, invece, riconoscono in Gesù un’autentica vita di fede.
Già all'inizio degli anni '960 Karl Rahner, riportando la dottrina scolastica sulla coscienza umana di Cristo, osservava: “Agli orecchi di noi moderni, questa affermazioni suonano a tutta prima con un timbro quasi mitologico. Sembrano contraddire all'autentica umanità e storicità del Signore; paiono essere in contrasto a prima vista insanabile con il dato scritturale che notifica una coscienza in fase di graduale sviluppo in Gesù (Lc 2,52), che ci mostra un Signore in atto di dichiarare di non sapere nulla proprio su cose decisive in materia soteriologica (Mt 24,36; Mc 13,32), che ci addita un Gesù influenzato sin nell'intimo dalla spiritualità e dalla religiosità del suo tempo” (11). K. Rahner da parte sua ha attribuito a Gesù una certa conoscenza immediata di Dio, ma di tipo non concettuale e quindi una conoscenza irriflessa, che non si traduceva, cioè, in concetti ed era perciò compatibile “con una genuina esperienza umana”, con l’ignoranza e “con un’autentica evoluzione spirituale e religiosa” (12). Rahner ha così offerto gli elementi per superare la frequente tenenza ad attribuire caratteristiche divine alla natura umana di Gesù, che egli stesso considerava un residuo dell’eresia monofisita (13), e per compiere passi ulteriori. Egli stesso aveva partecipato alla pubblicazione di un volume, in cui un suo discepolo difendeva con argomenti articolati la fede di Gesù. (14) In uno scritto successivo riconosceva che la teologia tradizionale non dava risalto, come invece è necessario fare, al “fatto che Gesù fosse uno che credeva, sperava, cercava ed era tentato, uno che si arrendeva inevitabilmente di fronte alla incomprensibilità di Dio” (15). L. Malevez, richiamandosi al metodo e ai principi di K. Rhaner ne svilupperà le implicazioni, applicandoli al cammino di fede di Gesù. (16)
Negli stessi anni (1961) anche Hans Urs von Balthasar ha affrontato in modo diretto il problema della fede di Gesù. (17) Richiamandosi a M. Buber, (18) egli ha valorizzato la distinzione tra fede come atteggiamento di abbandono fiducioso in Dio, di cui Abramo era tipico rappresentante (partì senza sapere dove andava Eb. 11,8) e la fede dei cristiani, che si configurò ben presto come annuncio/accoglienza di un evento/verità da credere. Egli sostiene che il rapporto di Gesù storico con Dio non ha carattere beatifico, ma si esprime con un vero atteggiamento di fede che ha però un carattere singolare ed è accompagnato da una particolare conoscenza della sua condizione filiale e della sua missione. Egli riconosce che “questo atteggiamento prototipico è stato nel suo foro interiore così perfetto e quindi così inesprimibile che il designarlo con lo stesso termine in uso per l’imitazione che ne facciamo noi, rischia di sopprimere la distanza fra l’uno e l’altro” (19). In un tempo successivo, ammette la rilevanza della tradizione circa la visione beatifica, ma conclude che anche l’eventuale particolare conoscenza che Gesù aveva di Dio, in ordine alla sua missione, non gli impediva, anzi implicava l’esercizio della fede in Lui. (20)
I biblisti d’altra parte continuavano a mettere in luce che l’esistenza di Gesù come appare dai vangeli, è molto diversa da quella che i teologi descrivevano nelle loro manuali e nelle loro riflessioni. Egli, infatti, “cresceva in sapienza e grazia davanti a Dio e agli uomini” (Lc 2, 52), ha cambiato opinione e non di rado ha assunto, come si è espresso Raymond. Brown “le idee inadeguate, anche erronee del suo tempo” (21).
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