Torna, dopo le feste della Natività, l'appuntamento contenente alcune riflessioni sulla teologia, di Mons. Carlo Molari:
3. La fede di Gesù: argomenti biblici e coerenza dogmatica
In questi ultimi decenni è diventato sempre più folto il gruppo dei teologi che rifiutano l’opinione tradizionale e parlano della fede di Gesù. Il cambiamento non è stato improvviso ma è avvenuto a piccoli passi. Alcuni teologi hanno ammesso l’esercizio della fede anche nello stato di gloria; (32) altri hanno attribuito a Gesù una particolare intuizione di Dio compatibile con la fede, (33) altri hanno accentuato la dimensione filiale di Gesù e il corrispondente atteggiamento di abbandono fiducioso in Dio, accompagnato da una particolare intuizione di Dio. (34) Infine altri sia biblisti che teologi senza difficoltà parlano di un autentico cammino di fede di Gesù, senza tentativi di conciliazione con la tradizione teologica. (35) Essi negano a Gesù conoscenze speciali non derivate dalla sua esperienza umana sperimentale o spirituale e gli attribuiscono un’autentica vita di fede, che è norma per il nostro cammino. In questo senso, secondo le formule della lettera agli Ebrei, Gesù è “apostolo e sommo sacerdote della fede che noi professiamo” (Eb 3,1), “iniziatore e consumatore della nostra fede” (Eb.12, 2). Per costoro tutte le argomentazioni addotte dai teologi dei secoli scorsi, sia quelle di ispirazione biblica che quelle dogmatiche, erano valide solo se riferite alla condizione gloriosa di Cristo, ma non alla sua esistenza terrena.
Non mi fermo ad esaminare le varie posizioni. (36) Vorrei piuttosto presentare gli argomenti addotti sia quelli biblici (3.1) che quelli dogmatici (3.2). In un quarto paragrafo vorrei poi proporre una breve riflessione sull’oggetto della fede di Gesù e sulle sue dinamiche.
3.1. Argomenti biblici.
Abitualmente tutti affermano che nella Scrittura Gesù non è mai soggetto del verbo pisteuo, non si dice cioè che Gesù ha esercitato la fede o che ha creduto come si dice di Abramo o di Maria. Ma questo argomento negativo non è sufficiente a dimostrare l’assunto tradizionale. Vi sono infatti nel Nuovo Testamento numerose indicazioni relative all’esercizio della fede di Gesù.
Wilhelm Thüsing in un volume scritto insieme a K. Rahner scrive: “Della fede di Gesù stesso si parla nel NT almeno in due scritti, il Vangelo di Marco e nella lettera agli Ebrei; inoltre io credo di poter dimostrare l’esistenza di questo tòpos anche in Paolo”. (37) Del Vangelo di Marco egli cita l’episodio del ragazzo epilettico del cap. 9 (vv.14-29). Il Padre del ragazzo dice a Gesù: “se tu puoi fa qualcosa”. Gesù riprende la formula e, quasi riflettendo tra sé e sé esclama: “se tu puoi. Tutto è possibile per chi crede” (Mc. 9,23). Thüsing commenta: “In questo collegamento logico, soltanto Gesù può essere inteso come colui che crede, al quale, appunto attraverso la fede, la guarigione è possibile. Una conferma di ciò la troviamo alla fine della pericope, nel versetto 29, dove Gesù designa la preghiera come condizione dalla quale dipende la possibilità o l’impossibilità della guarigione”. (38) Anche Jon Sobrino che accetta questa argomentazione scrive: “In questo passo «chi crede» non è altri che Gesù stesso, il quale compie infatti il miracolo in base alla propria fede. Lo conferma il v. 29: «Questa specie di demoni non si può scacciare se non con la preghiera»: gli esegeti equiparano questa preghiera alla fede. Ciò che qui si afferma direttamente è dunque il fatto che Gesù possedette la forza proveniente dalla fede, mentre egli stesso viene indirettamente dichiarato come colui che ha fede.. Gesù - così almeno ha interpretato Marco- fa riferimento alla propria fede e viene dichiarato uomo di fede”. (39) L’argomentazione di Wilhelm Thüsing viene citata anche da Walter Kasper: “Qui la fede viene.. considerata come partecipazione all’onnipotenza di Dio e quindi come una capacità di ridonare la salute. Se teniamo presente lo sviluppo dei concetti del brano, dovremmo convenire che soltanto Gesù qui è «colui che crede» e che solo lui, proprio in forza della sua «fede», è capace di sanare… Nella sua radicale obbedienza Gesù è quindi la radicale originarietà da Dio e il radicale riferimento a Lui. Egli non è nulla da sé ma tutto da Dio e per Dio. È quindi la forma vuota, lo spazio aperto all’amore di Dio che si comunica.. La successiva cristologia della figliolanza non è altro che l’interpretazione e traduzione di ciò che si trova nascosto nell’obbedienza e donazione filiali di Gesù”. (40)
Non ci sono eccessive difficoltà a riconoscere la convinzione che secondo la Lettera agli Ebrei, Gesù abbia esercitato la fede. Egli viene riconosciuto “apostolo e sommo sacerdote della fede che noi professiamo” (Eb 3,1) e “iniziatore e consumatore della fede” (Eb 12,2). L’autore riconosce che Gesù aveva introdotto una modalità nuova nell’esercizio della fede in Dio, aveva aperto una via particolare. I discepoli di Gesù erano appunto designati “quelli della via di Cristo” (cfr Atti 9,3). D’altra parte la stessa Lettera osserva che Gesù aveva imparato “l’obbedienza (= la fede, l’ascolto) dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono (= che hanno fede in Lui)” (Eb., 5,8s.). Gesù ha reso così possibile un nuovo tipo di esperienza di Dio. “Si tratta dell’esperienza che la πίστις, in quanto fiducioso abbandonarsi al Dio della promessa, in quanto orientamento e in quanto resistenza nella situazione di tentazione, è possibile se si leva lo sguardo a colui che, in quanto credente (Eb 12,2) non solo incomincia l’esperienza di fede (come iniziatore oppure condottiero [α̉ρχηγός] della fede, ma anche la perfeziona”. (41) “Questo tuttavia non va inteso in maniera puramente esemplare, bensì prototipa e originaria: come colui che ha vissuto questa ‘fede’ in modo singolare e la cui fede adesso è pervenuta allo stato di ‘perennità’, egli da ai suoi la forza per questa fede – cioè (secondo il contesto di Eb. 12) per «la corsa senza posa» verso la meta della promessa”. (42)
Quanto a Paolo è interessante notare il valore di una sua formula singolare: πίστις Χριστoυ̃: fede di Cristo. Essa è presente 8 volte nelle sue lettere: Fil. 3,9, Rom. 3,22,26; Gal 2,16 (2 volte); Gal 2,20; Gal 3,22; Ef 3,12. (43)
Non è questo il luogo per una esegesi particolareggiata dei testi citati. (44) Presento solo velocemente il ventaglio delle interpretazioni e chiarisco la ragione di coloro che argomentano a favore della fede personale di Gesù.
Possiamo raggruppare le interpretazioni del sintagma genetivale πίστις Χριστoυ̃ in quattro gruppi:
a. senso oggettivo: la fede in Cristo. È questa l’interpretazione più tradizionale comune ai Padri greci, agli occidentali come S. Agostino e S. Tommaso. Anche Lutero interpreta Paolo in senso oggettivo. I commentari e le traduzioni più diffuse (la traduzione CEI sia nella prima redazione che nella recente revisione) interpretano la formula come la fede in Gesù Cristo.
b. Senso soggettivo: la fede esercitata da Gesù nei confronti del Padre; lo stile della sua fiducia in Dio, che ha influito sui discepoli e ha suscitato la loro fede. Diversi esegeti e teologi attuali come vedremo, interpretano a formula in questo senso.
c. Senso genetico o di autore: la fede suscitata da Cristo, sia nei confronti di Dio (perché da lui esercitata) sia nei suoi confronti: “abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me” (Gv. 14,1).
d. Senso complesso: che racchiude diversi significati intrecciati in virtù dell’unione profonda che il discepolo ha con Cristo perché guidato dal suo Spirito. R. Vignolo la chiama fede di relazione e la descrive con queste parole: “fede attuata, istituita da Cristo, meglio ancora fede portata da Cristo; intendendo l’attuazione vuoi a Cristo come singolare soggetto di fede, vuoi a Cristo come istituente una fede correlata a lui, affidabilmente fondata su di lui”. (45) Egli osservando che “il sintagma così inteso svolge un ruolo di raccordo privilegiato nel contesto del pensiero paolino” ricorda in modo sommario altre interpretazioni complesse. (46)
Roberto Vignolo nel suo articolo molto attento ed accurato, osserva che “percentualmente nel corpo paolino largamente inteso (con eccezione di Eb. e prescindendo dai casi direttamente in questione) πίστις è seguita 29 volte da genitivo soggettivo e solo 3 volte da genitivo oggettivo. Evidentemente i genitivi di Rom 3,3; 4, 12.16 sono tutti soggettivi”. (47)
In conclusione credo che non si possa escludere il riferimento soggettivo nelle formule paoline citate. Altrimenti Paolo avrebbe scelto l’espressione πίστις ε̉ν Χριστω̃ Ίησου̃.
Riflessioni sulla teologia cattolica - Terza parte
Pubblicato da
Angel
at
mercoledì 29 dicembre 2010
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