Concludiamo la giornata liturgica attraverso l'ormai consueto appuntamento di meditazione con le riflessioni di noti sacerdoti e movimenti religiosi. Oggi riflettiamo attraverso le parole di mons. Gianfranco Poma:
Dopo aver rinnovato l'annuncio: "Non cercate tra i morti Colui che è vivo. Non è qui: è risorto", la Liturgia del tempo pasquale continua a farci rivivere l'incontro personale con il Cristo vivo e a presentarci l'esistenza cristiana come l'esperienza di relazione con Lui, all'interno di una comunione di persone che vivono di Lui.
Il Vangelo di Giovanni termina dicendo: "Queste cose sono state scritte perché voi crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome" (Giov.20,31).
Dunque l'autore si rivolge ai suoi lettori, oggi a noi, perché "crediamo": la fede a cui Giovanni invita non è tanto il primo atto di fede, la decisione di credere, quanto piuttosto "l'esperienza della fede", è la percezione di una comprensione nuova della realtà. Credere significa vedere, ascoltare, toccare la carne di Gesù e sperimentare il Figlio di Dio, vedere la croce e percepire la Gloria, vedere il pane e sentire l'Amore della sua vita che si dona. Credere per Giovanni significa sperimentare la Parola di Dio che si è fatta carne perché noi sperimentiamo la Gloria: così tutta la realtà è "simbolica" nel senso che essa ha un senso che si autotrascende. La fede è la percezione divina della realtà: Gesù è la via che ci guida alla esperienza vera della vita. Per questo il Vangelo conclude: "perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome". La fede è la esperienza dell'incontro con Gesù, il Figlio di Dio che ci conduce a percorrere con Lui il cammino della vita e a sperimentare che, pur dentro la fragilità della storia, essa ha una intensità inesauribile tanto da essere già vita "eterna". Il Vangelo di Giovanni è il Vangelo di Cristo risorto: Lui risorto ci incontra e ci introduce nella sua vita divina. La vita del credente è la vita del discepolo che "Gesù ama", ne gusta l'amore, ne percepisce i segni e risponde con il proprio amore all'amore di Gesù. La vita del credente è in realtà la vita dell' "amante": il discepolo è colui che "crede l'amore". Il Vangelo di Giovanni, rivelazione di un Dio che ama fino al dono del proprio Figlio, è allo stesso tempo un Vangelo soffuso di una profonda amarezza: Gesù per tutta la sua vita ha sperimentato l'avversione da parte di coloro che preferiscono la tenebra alla luce, che non credono l'Amore e che lo hanno crocifisso. Ma Gesù è risorto: l'Amore vince l'odio, la fede vince il mondo. E questa è la storia che continua: la fede si fa strada dentro l'incredulità che rimane nel mondo e pure nella comunità dei discepoli che è pur sempre immersa nel mondo e nella storia.
In questo contesto possiamo comprendere il brano del Vangelo di Giovanni (10,1-10) che leggiamo nella Liturgia della domenica IV di Pasqua. Il libro degli Atti degli Apostoli descrive i primi passi della vita della comunità cristiana: una comunità composita ha bisogno di darsi una struttura, la persecuzione spinge gli ellenisti a fuggire da Gerusalemme e a cominciare una missione presso i samaritani. Nella Chiesa primitiva si sono sviluppate progressivamente strutture di autorità: i cristiani ellenisti scelgono amministratori locali mentre Giacomo e gli anziani sono descritti come capi della comunità cristiana degli Ebrei; Paolo per le sue comunità indica diversi tipi di autorità. Leggere Giovanni in questo contesto significa comprendere l'urgenza di porre attenzione
ai pericoli inerenti a queste strutture: coloro ai quali viene attribuita l'autorità nella Chiesa, tendono a prendere importanza eccessiva agli occhi di coloro per i quali dovrebbero essere i "servi". E questo avviene perché la loro presenza è senza mediazioni e spesso si pensa che attraverso ciò che essi fanno si raggiunge Gesù. Il cap.10 di Giovanni è una splendida e forte meditazione sul senso dell'autorità nella comunità ecclesiale. Per Giovanni è di assoluta importanza non dimenticare la
presenza nella Chiesa di Gesù, il risorto, che solo può donare la vita di Dio. Verso la fine del sec.I, quando l'appellativo di "pastori" era largamente diffuso per i responsabili delle Chiese, l'insistenza di Giovanni sul fatto che Gesù è il solo pastore buono e che tutti gli altri sono ladri e mentitori, rappresenta una precisa sfida: le pecore devono ascoltare solo il pastore divino. Certo nel contesto storico di Giovanni queste parole sono rivolte anzitutto ai capi delle sinagoghe, ma inevitabilmente hanno nella comunità cristiana una ricaduta che qualifica il ruolo dell'autorità ecclesiale. E per Giovanni, non si tratta di una questione astratta: la passione che traspare dalle sue parole, rivela
quanto sia forte il rischio di dimenticare la insostituibile presenza di Gesù, vivo, a favore di autorità che invece farebbero scadere la comunità cristiana a livello di qualsiasi altra organizzazione umana.
Comincia dunque a parlare dell' "ingresso" nell'autorità ecclesiale: non si entra attraverso la via di interessi personali ma attraverso "la porta" tipicamente ecclesiale che è la "comunione". L'autorità ecclesiale è esercizio di comunione: proprio la comunione è la fonte che la genera ed è il servizio reso alla comunione di persone che si conoscono, si stimano, si promuovono, che la mantiene nella sua reale efficienza.
Il Vangelo sottolinea che coloro ai quali Gesù parlava "non capirono di che cosa stava parlando", proclamando così, con estrema chiarezza, la radicale novità dell'autorità ecclesiale generata dall'Amore, in rapporto all'autorità normalmente interpretata come "potere" a vantaggio di interessi particolari.
Il Vangelo continua quindi chiarendo la natura dell'autorità ecclesiale: "In verità, in verità io vi dico: Io sono la porta…" Attraverso queste parole solenni, Gesù comincia a rivelare il mistero della sua presenza nella Chiesa: è la presenza inaugurata dalla sua risurrezione, dal suo passaggio da questo mondo al Padre attraverso un Amore che ha raggiunto il suo compimento nella Croce. E' il suo Amore che apre la via per una relazione nuova con il Padre, fatta di libertà filiale, fatta di una impensabile ricchezza di doni: la pace, la gioia, il perdono…L'autorità nella Chiesa ha senso, di conseguenza solo come autorità "sacramentale", trasparenza di Lui e segno della sua prsenza, autorità che nasce dalla gratuità di una grazia che vuole solo essere accolta e continuamente ridonata.
L'ultima frase è ancora una parola appassionata: "Il ladro viene per rubare, uccidere e distruggere: io sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza" L'autorità ecclesiale è la continua visibilità della presenza di Cristo risorto nella storia: è tale solo se è libera da ogni pretesa di possesso, se è servizio alla libertà di ogni persona che appassionatamente ama la vita.
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