Riflettiamo Insieme

nella vigna ...

I giovani sono molto amati da Dio di San Giovanni Bosco

Concludiamo questa giornata con delle bellissime parole di San Giovanni Bosco rivolte ai suoi amati giovani e per i quali ha dedicato particolarmente il suo ministero sacerdotale:


Noi tutti, o caro giovane, siamo stati creati per il Paradiso, dobbiamo perciò indirizzare ogni nostra azione a questo gran fine. A far questo deve spingerci il premio che Dio ci ha promesso e il castigo che ci ha minacciato, ma assai più IL GRANDE AMORE CHE EGLI CI PORTA. Infatti, benché Dio ami tutti gli uomini come Suoi figli, tuttavia ha un particolare amore per i giovani e «trova la Sua delizia nello stare con loro».
Dio ama i giovani perché da essi si aspetta molte opere buone; li ama perché sono in un'età semplice, umile, innocente e, in generale, non sono ancora divenuti preda del nemico infernale.
Anche Gesù ha dato prove di speciale benevolenza per i giovani. Egli ci assicura che considera come fatto a Sè tutto il bene fatto ai fanciulli e minaccia terribilmente chi dà loro scandalo. Ecco le Sue parole: «Se qualcuno scandalizzerà uno di questi piccoli che credono in Me, sarebbe meglio per lui che gli fosse legata al collo una macina da mulino e che fosse gettato nel profondo del mare». Gesù gradiva che i fanciulli lo seguissero, li chiamava a Sè, e dava loro la Sua santa benedizione. Diceva: «Lasciate che i fanciulli vengano a Me, e non glielo proibite!», facendoci così comprendere che i giovani sono la delizia del Suo cuore.
Poiché Gesù ti ama tanto tu pure lo devi amare, facendo tutto ciò che a Lui piace ed evitando tutto quanto lo potrebbe disgustare.

Ha scelto i deboli

Concludiamo la giornata liturgica attraverso l'ormai consueto appuntamento di meditazione con le riflessioni di noti sacerdoti e movimenti religiosi. Oggi riflettiamo attraverso le parole di mons. Roberto Brunelli:

Comincia oggi, per continuare le prossime domeniche, la lettura della parte del vangelo secondo Matteo designata come il discorso della montagna: tre capitoli in cui si espone una vera rivoluzione nel modo di pensare; la più grande, perché sposta l'ottica dal piano puramente naturale, terreno, a quello soprannaturale. In altre parole, invita a guardare le cose e i fatti con gli occhi di Dio, a valutarli secondo il metro suo. Lo evidenzia già il brano iniziale del discorso, quello appunto che si legge oggi, le beatitudini (Matteo 5,1-12). Beati i poveri in spirito, gli affamati di giustizia, i non violenti, i misericordiosi, i puri di cuore, i perseguitati, quelli che si adoperano a mettere pace… Insomma l'opposto dei prepotenti, dei violenti, degli immorali, dei litigiosi di cui è pieno il mondo, come anche le cronache attestano. Per molti sono proprio questi ultimi, tutti protesi ad affermare sé stessi e i propri interessi, i modelli da seguire; i primi sono ritenuti sciocchi, illusi, rinunciatari: in una parola, deboli. Qui più che mai è in gioco la fede; l'invito di Gesù ad andare contro corrente comporta la fede, vale a dire il fidarsi di lui, che sa meglio di noi che cosa è meglio per noi.
In proposito, una stretta consonanza con il vangelo si trova oggi nella seconda lettura. L'apostolo Paolo scrive ai cristiani di Corinto (1,26-31): "Quello che è stolto per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i sapienti; quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti; quello che è ignobile e disprezzato per il mondo, quello che è nulla, Dio lo ha scelto per ridurre al nulla le cose che sono, perché nessuno possa vantarsi di fronte a Dio". In altre parole, per realizzare il suo piano di salvezza per l'umanità, Dio ha scelto proprio i deboli, i disprezzati, i senza importanza.
Si capisce allora perché Dio abbia lanciato i suoi messaggi al mondo moderno servendosi spesso di persone sconosciute in vita (per esemplificare, Santa Teresa di Gesù Bambino, Charles de Foucault), o poverissime (Teresa di Calcutta), e persino ignari fanciulli (come a Lourdes o a Fatima). A ben guardare, tuttavia, questo stile divino è cominciato con lo stesso Salvatore, che agli occhi del mondo ha concluso la sua vita sulla croce, cioè nel modo più ignominioso e fallimentare: i potenti e i "furbi" di allora hanno creduto così di togliere di mezzo quel guastafeste, e invece la sua opera è dilagata nel mondo intero. E lo si è sempre visto anche nei suoi seguaci: quando le loro opere si sono basate sulle risorse umane (vedi le crociate, l'inquisizione eccetera) sono risultate fallimentari, mentre quando hanno affrontato il mondo con le povere armi della parola e dell'esempio, confidando solo in Dio, la loro apparente sconfitta o insignificanza ha portato alla fede un numero incalcolabile di uomini. Ne sono esempio i martiri, i missionari, gli innumerevoli religiosi e laici che in famiglia o in piccole comunità sperdute sono stati e sono umili, deboli e spesso sconosciuti strumenti nelle mani di Dio. Hanno accettato di esserlo, non basando la propria vita sulle risorse umane della ricchezza, del potere o della cultura, ma servendosi di queste risorse, se ne disponevano, e in ogni caso delle altre risorse di cui ogni uomo dispone (intelligenza, energie fisiche, tempo e così via). Le hanno usate secondo la Sua volontà, riconoscendo di averle ricevute da lui: per questo, spiega l'apostolo, nessuno può vantarsene.
Continuando, Paolo ricorda ai Corinzi che Dio ci ha dato il suo Figlio: e lui è per noi la vera sapienza, lui ci rende graditi al Padre, ci dà la possibilità di vivere per lui e ci libera dal male; perciò, come sta scritto nella Bibbia (Geremia 9,22-23), chi vuole vantarsi, si vanti per quello che ha fatto il Signore.

Quando l'amicizia salva la vita

 Ringrazio Marina e Dardo per aver trasmesso questa bellissima storia di amicizia che dovrebbe insegnarci qualcosa di veramente importante e cioè che possiamo davvero fare qualcosa per il mondo se semplicemente ci lasciamo guidare dall'amore:


Lettera di San Tommaso a uno studente

Concludiamo la nostra giornata dedicata a San Tommaso d'Aquino, con una lettera del medesimo santo indirizzata a uno studente, ma spiritualmente rivolta a quanti desiderano perfezionarsi nell'amore.


Lettera di San Tommaso a uno studente

Giovanni, in Cristo a me carissimo, poiché mi hai chiesto in che modo tu debba applicarti allo studio per acquistare il tesoro della scienza, ecco in proposito il mio consiglio: 
      non voler entrare subito in mare, ma arrivaci attraverso i ruscelli, perché è dalle cose più facili che bisogna pervenire alle più difficili. 
      Questo è dunque il mio parere, che ti servirà di regola. 
      Voglio che tu sia tardo a parlare e restio a scendere in parlatorio: 
      abbi una coscienza pura; 
      non tralasciare di attendere alla preghiera; 
      sii amante della tua cella; 
      mostrati amabile con tutti; 
      non essere per nulla curioso dei fatti altrui; 
      non essere troppo familiare con nessuno, perché la familiarità eccessiva genera disprezzo, e dà occasione di trascurare lo studio; 
      non t'intromettere in nessun modo nei discorsi e nei fatti dei secolari; 
      non divagare su tutto; 
      non lasciar d'imitare gli esempi dei santi e dei buoni; 
      non guardare chi è colui che parla, ma tieni a mente tutto ciò che di buono egli dice; 
      procura di comprendere ciò che leggi e ascolti. 
      
      Certificati delle cose dubbie, e studiati di riporre nello scrigno della memoria tutto ciò che ti sarà possibile; 
      non cercare cose superiori alla tua capacità. 
      Seguendo queste norme, produrrai fiori e frutti nella vigna del Signore, in tutti i giorni della tua vita. 
      Mettendo in pratica questi insegnamenti, potrai raggiungere la meta alla quale aspiri. Addio.

In principio, la Trinità di Don Tonino Bello

Leggiamo di seguito una bellissima meditazione sulla vita Trinitaria del Servo di Dio, Don Tonino Bello, una vita alla quale ciascuno di noi è chiamato a partecipare:


In principio, la Trinità

di Don Tonino Bello



Una delle cose più belle e più pratiche messe in luce dalla teologia in questi ultimi anni è che la SS. Trinità non è solo il mistero principale della nostra fede, ma è anche il principio architettonico supremo della nostra morale. Quella trinitaria, cioè, non è solo una dottrina da contemplare, ma un'etica da vivere. Non solo urta verità tesa ad alimentare il bisogno di trascendenza, ma una fonte normativa cui attingere per le nostre scelte quotidiane.
Gesù, pertanto, ci ha rivelato questo segreto di casa sua non certo per accontentare le nostre curiosità intellettuali, quanto per coinvolgerci nella stessa logica di comunione che lega le tre persone divine.

Nel cielo tre persone uguali e distinte vivono così profondamente la comunione, che formano un solo Dio.
Sulla terra più persone, uguali per dignità e distinte per estrazione, sono chiamate a vivere così intensamente la solidarietà, da formare un solo uomo, l'uomo nuovo: Cristo Gesù.
Sicché l'essenza della nostra vita etica consiste nel tradurre con gesti feriali la contemplazione festiva del mistero trinitario, scoprendo in tutti gli essere umani la dignità della persona, riconoscendo la loro fondamentale uguaglianza, rispettando i tratti caratteristici della loro distinzione.
C'è da aggiungere, poi, che nel cielo le ricchezze proprie di una persona divina sono così trasferibili dall'una all'altra (c'è, potremmo dire, un così intenso scambio culturale tra Padre, Figlio e Spirito), che la teologia per indicare questo fenomeno ha dovuto coniare un'espressione forse un po' difficile per i non addetti ai lavori, ma estremamente significativa: la comunicazione degli idiomi.
Ebbene, l'imperativo etico che ne deriva per coloro che vivono sulla terra è che se tengono sotto sequestro le proprie risorse spirituali o materiali senza metterle a disposizione degli altri, non possono esimersi dall'accusa di appropriazione indebita.
 

Convivialità delle differenze
Possiamo concludere, allora, che il genere umano è chiamato a vivere sulla terra ciò che le tre persone divine vivono nel cielo: la convivialità delle differenze.
Che significa?
Nel cielo, più persone mettono così tutto in comunione sul tavolo della stessa divinità, che a loro rimane intrasferibile solo l'identikit personale di ciascuna, che è rispettivamente l'essere Padre, l'essere Figlio, l'essere Spirito Santo.
Sulla terra, gli uomini sono chiamati a vivere secondo questo archetipo trinitario: a mettere, cioè, tutto in comunione sul tavolo della stessa umanità, trattenendo per sé solo ciò che fa parte del proprio identikit personale.
Questa, in ultima analisi, è la pace: la convivialità delle differenze. Definizione più bella non possiamo dare. Perché siamo andati a cercarla proprio nel cuore della SS. Trinità.
Le stesse parole che servono a definire il mistero principale della nostra fede, ci servono a definire l'anelito supremo del nostro impegno umano.
Pace non è la semplice distruzione delle armi. Ma non è neppure l'equa distribuzione dei pani a tutti i commensali della terra.
Pace è mangiare il proprio pane a tavola insieme con i fratelli.
Convivialità delle differenze, appunto.
 

La Trinità, tavola promessa
Ma c'è di più: la vita trinitaria del cielo non è solo un modulo da rovesciare sulla terra perché gli uomini ne vivano le esigenze radicali con uno sforzo di imitazione fine a se stessa.
La Trinità, cioè, non è solo un archetipo da riprodurre, ma è una tavola promessa alla quale un giorno avremo la sorte dì sederci, all'unica condizione che anche sulla terra ci si alleni a stare insieme con gli altri attorno alla stessa mensa della vita.
Dopo che sulla terra ci saremo impegnati a essere una sola cosa nel Cristo, divenuti "Figli nel Figlio", prenderemo posto "per ipsum, cum ipso et in ipso" al tavolo della Santissima Trinità.
Come è dato vedere, il Signore Gesù se ci ha rivelato questo mistero, non l'ha fatto certo per complicarci le idee. Ma l'ha fatto per offrirci un principio permanente di critica cui sottoporre tutta la nostra vita nelle sue espressioni personali e comunitarie, e per indicarci, nel contempo, il porto al quale attraccheremo finalmente la nostra barca.
Sicché la Trinità non è una specie di teorema celeste buono per le esercitazioni accademiche dei teologi. Ma è la sorgente da cui devono scaturire l'etica del contadino e il codice deontologico del medico, i doveri dei singoli e gli obblighi delle istituzioni, le leggi del mercato e le linee ispiratrici dell'economia, le ragioni che fondano l'impegno per la pace e gli orientamenti di fondo del diritto internazionale.
La Trinità, dunque, è una storia che ci riguarda. Ed è a partire da essa che va pensata tutta l'esistenza cristiana.
Bloch diceva che Dio è un padrone collocato così in alto, che l'uomo, il servo, di fronte a lui rimane a bocca asciutta.
Nulla di più falso, almeno per il nostro Signore, il quale, se si è rivelato uno e trino, è perché vuol far sedere il servo alla tavola delle sue ricchezze.

Racconto di una bambina del dopo Shoah

Nel giorno della Memoria, dobbiamo riflettere sugli orrori umani e lo possiamo fare attraverso il racconto di una figlia della Shoah e della Liberazione:

 Una bambina nata dopo la Shoah sa cose diverse dalle altre bambine: per esempio, guarda di nascosto un libro proibito intitolato Der gelbe Stern, «La stella gialla», e là vede per la prima volta corpi nudi di uomini e donne, e la sua curiosità per le loro differenze è sommersa dalla curiosità per una morte orribile che mescola i corpi creando un eterno nodo di dolore. Una bambina così, sa che il suo nonno paterno Joseph, nato a Baranov, Polonia, e sua moglie, e quattro bambine, e l’adorato fratello piccolo del babbo Moshe, tutti sono stati bruciati vivi con getti di acqua bollente (in quel campo di sterminio era questa la prassi) a Sobibor.

La bambina guarda la foto di Moshe, lo guarda fisso negli occhi chiari, e vede che le somiglia molto. Con lui sono spariti altri innumerevoli zii e parenti di diverso grado. La bambina sa fin da piccola che la famiglia materna, nella parte della nonna Rosina Volterra, era una famiglia con tanti allegri fratelli, e poi, dopo anni di nascondigli e fughe, per la delazione di alcuni conoscenti, ha visto inghiottire ad Auschwitz Angiolina e Gastone, come gli altri fratelli due ragazzi di alta borghesia, che per primi arrivavano in automobile a Forte dei Marmi, e che, da antiquari quali erano, organizzavano gli abiti antichi del Calcio in Costume per il Podestà di Firenze. Da figli chiamati dalla mamma «amore» e «tesoro», divennero soltanto carne da macello, carne di ebrei.

Una bambina ebrea sa anche che il suo nonno Giuseppe Lattes da dirigente di banca un giorno del 1938 si trovò per strada, a doversi inventare dei cartoni di bottoni colorati che andava a cercare di vendere di merceria in merceria a bordo di una motoretta. Questi bottoni rimasero in casa come gioco per noi bambini fino agli Anni 60. La figlia della Shoah sa che la sua mamma Wanda e la zia Rirì, da un giorno all’altro non poterono più andare a scuola, e né i professori né i compagni alzarono una voce neppure di sorpresa; e che la famiglia Lattes girava di casa in casa cercando un nascondiglio, e ci furono pochi che rischiarono per loro, e la maggior parte invece, no. Anzi, c’era chi li denunciò volentieri.

Ma dai racconti della nonna, la bimba sa di un giorno meraviglioso: quello in cui a Firenze giunse con i liberatori la Brigata Britannica con la Stella di Davide. Veniva dalla Palestina, allora mandato britannico. Tra quei soldati c’era suo padre, Aaron, poi detto Alberto. Il miracolo di vitalità e di amore per la vita del popolo ebraico offeso sei milioni di volte, splendeva in quel soldato ebreo e israeliano. La mia nonna Rosina ci prendeva per mano a noi bambine, la Fiamma e la Susy, e con noi ballava la Hora nel corridoio sotto un arazzo su cui la regina Ester troneggiava vittoriosa sul re Assuero, un Hitler dell’antichità. La Hora era il ballo dei pionieri sionisti: la nonna non è mai stata coscientemente tale, sentiva solo che in questo avere finalmente una propria nazione, si compiva un unico miracolo di resurrezione.

La cronista ha visto tanti Giorni della Memoria: il più bello in Israele, quando la gente poteva finalmente piangere senza distrazioni i morti della Shoah, elaborare il proprio lutto. Ovvero, ai tempi del processo di pace. Pareva negli anni di Rabin e della trattativa possibile che gli ebrei avessero trovato un approdo nel porto per loro così tempestoso della Storia. Non più morti, non più bambini terrorizzati e madri disperate. Non più Protocolli dei Savi di Sion, congiure giudaico-massoniche, plutocrazia ebraica, caricature nasute e con i sacchi d’oro fra le grinfie, non più sporco ebreo.

La pace sarebbe giunta agli ebrei, finalmente, dopo duemila anni di sospiri, dal tempo dell’esilio romano, dopo tante persecuzioni, quel Paese degli ebrei riconosciuto da tutto il mondo. Ma non era vero: sono tornati i Protocolli dei Savi di Sion, distribuiti a Durban, per le strade, o resi serial televisivi dalla tv egiziana; sono tornati nelle caricature dei giornali arabi gli ebrei nasuti con i sacchi di dollari, la congiura mondiale e anche il sangue che cola dalle mani e dalla bocca degli israeliani; è tornato l’invito dell’integralismo islamico a uccidere gli ebrei, tutti gli ebrei, dovunque si trovino.

E il mondo non ha detto altolà, neppure di fronte alla negazione generalizzata della Shoah definita «solo uno strumento per promuovere il sionismo»: non si sente un urlo di indignazione! Non si è sentito neppure quando sono state rilanciate le accuse di deicidio, o si è promesso di distruggere Israele in un colpo solo con la bomba atomica. E nemmeno quando dopo l’11 settembre, con labbra oscene, molti hanno vomitato l’idea che solo gli ebrei potevano aver organizzato un così riuscito disastro; nei casi più lievi, anche nei salotti di Francia, Inghilterra e Italia si è detto che comunque era accaduto a causa degli ebrei.

Come può essere? Come mai l’uomo contemporaneo non è ancora accorto di fronte alle orribili avvisaglie dell’antisemitismo? La Shoah non è finita finché esso non cessa: ognuno può pensarla come vuole sul conflitto mediorientale, e scriviamo in questa solenne ricorrenza che è indispensabile che il popolo palestinese abbia uno Stato nella sicurezza reciproca con gli israeliani e che cessino le sue dure sofferenze. Ma questo non c’entra: per arrivare alla protezione di tutte le minoranze, alla soddisfazione di tutte le richieste di chi soffre, la coscienza umana deve essere linda dalla sporcizia dell’antisemitismo.

È ora, finalmente, che i bambini ebrei, a cinquant’anni di distanza, debbano poter vivere tranquilli, dovunque essi siano, e non morire per le strade, in pizzeria, in autobus. E così sia per ogni altro bambino. Il segnale della vera fine dell’antisemitismo sia un segnale per tutti di pace e di benessere. Ma la pace va ancora conquistata. Questa è la preghiera di una figlia della Shoah e della Liberazione

La mia casa è in Cielo

Il sacerdote napoletano don Dolindo Ruotolo, duran­te le sue prediche, aveva la capacità di attirare l'at­tenzione anche dei più piccoli. I bambini, incantati, lo fissavano e non perdevano una parola di quanto di­ceva. Un giorno don Dolindo concluse così il suo di­scorso: «La mia casa è in Cielo!». Vincenzino, un bambino di sei anni, rimasto profondamente colpito da quelle parole, rivolto alla mamma, esclamò: «Mamma, che casa bella dev'essere quella di don Do­lindo! Pensa, mamma, don Dolindo abita in Cielo!». La madre sorrise di tanta semplicità e tentò di spie­gargli che don Dolindo aveva detto così, per modo di dire, ma il bambino non volle sentir ragioni. «No! No! - ripeteva Vincenzino - Don Dolindo abita in Cielo! L'ha detto davvero!». Passati alcuni giorni, una mat­tina Vincenzino scomparve. Dopo ore di angosciose ricerche, il ragazzino fu trovato alle quattro del po­meriggio, mentre camminava in lacrime, tenendo per mano don Dolindo. Ai violenti rimproveri dei genito­ri, Vincenzino, puntando l'indice contro don Dolin­do, gridava: «Questo è un prete bugiardo! Hai capito, papà? È un bugiardo! Non è vero che abita in Cielo! Stamattina l'ho seguito di nascosto e l'ho visto entra­re in un palazzo in via Salvator Rosa! Hai capito? Abita in una casa che sta qui in terra come la nostra. Sì, sì: è un prete bugiardo!». Don Dolindo, sorriden­do divertito, abbracciò quel caro bambino per difen­derlo dai genitori. Dopo qualche mese il padre di Vincenzino cominciò a soffrire di gravi disturbi ad­dominali. Il medico sentenziò la necessità di un inter­vento chirurgico, al quale il pover'uomo non voleva sottoporsi, continuando a sentirsi male e a trascinarsi al lavoro. La moglie, disperata, andò da don Dolindo, esponendogli la sua preoccupazione. Don Dolindo al­lora la confortò; si raccolse in un'Ave Maria e le dis­se che il marito stava bene, ma era necessario che andasse all'ospedale per farsi visitare ancora dal chi­rurgo. Il buon uomo si recò subito all'ospedale dove il medico di turno lo guardò, l'esaminò e, stupito, per non dire quasi irritato, disse: «Ma lei sta benissimo! Non deve affatto operarsi! Non ha più nulla, capisce?». L'uomo, ebbro di felicità, corse a casa, gridando: «Sto bene!! Niente operazione! Don Dolindo aveva ragio­ne!». Vincenzino osservava la scena strabiliato, men­tre un dubbio gli attraversava la mente: «Che non abiti davvero in Cielo questo prete? Domani tornerò ad in­vestigare! ».

Proposito. Abituarsi a combattere, nei riguardi del prossimo, i peccati di pensiero e soprattutto i giudizi te­merari che tanto offendono il Signore. (Tratto da: La mia Messa - Casa Mariana Editrice 7/2010)

Inno alla carità

Nel giorno della celebrazione della conversione di San Paolo, meditiamo il suo profondo inno alla carità affinché sia guida per il nostro agire quotidiano:


Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli,
ma non avessi la carità,
sarei un bronzo risonante o un cembalo squillante.

Se avessi il dono della profezia
e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza
e avessi tutta la fede in modo da spostare le montagne,
ma non avessi la carità,
non sarei nulla.

Se distribuissi tutti i miei beni per nutrire i poveri,
se dessi il mio corpo per essere arso,
e non avessi la carità,
non mi gioverebbe a nulla.

La carità è paziente,
è benigna la carità;

la carità non invidia, non si vanta,
non si gonfia, non manca di rispetto,
non cerca il proprio interesse, non si adira,
non tiene conto del male ricevuto,
ma si compiace della verità;

tutto tollera, tutto crede,
tutto spera, tutto sopporta.

La carità non verrà mai meno.

Le profezie scompariranno;
il dono delle lingue cesserà, la scienza svanirà;
conosciamo infatti imperfettamente,
e imperfettamente profetizziamo;
ma quando verrà la perfezione, sparirà ciò che è imperfetto.

Quando ero bambino, parlavo da bambino,
pensavo da bambino, ragionavo da bambino.
Da quando sono diventato uomo,
ho smesso le cose da bambino.

Adesso vediamo come in uno specchio, in modo oscuro;
ma allora vedremo faccia a faccia.
Ora conosco in parte, ma allora conoscerò perfettamente,
come perfettamente sono conosciuto.

Ora esistono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità;
ma la più grande di esse è la carità.

Come ascoltare la Santa Messa di San Francesco di Sales

Terminiamo questa giornata dedicata a San Francesco di Sales con una delle sue meditazioni tratte dall'opera "Filotea: Introduzione alla vita devota", in particolar modo mediteremo l'ascolto conveniente per la Santa Messa.



Capitolo XIV - COME ASCOLTARE LA SANTA MESSA

Non ti ho ancora parlato del sole degli esercizi spirituali: il santissimo e sommo Sacrificio e Sacramento della Messa, centro della religione cristiana, cuore della devozione, anima della pietà, mistero ineffabile che manifesta l'abisso della carità divina; per suo mezzo Dio si unisce realmente a noi e ci comunica, in modo meraviglioso, le sue grazie e i suoi doni.
L'orazione innalzata in unione a questo Sacrificio divino possiede una forza da non potersi esprimere a parole, o Filotea. Per mezzo suo l'anima abbonda di doni celesti, perché abbraccia l'Amato, che la ricolma talmente di profumi e di soavità spirituali, che essa assomiglia a una colonna di fumo di legni aromatici, di mirra, di incenso e di tutte le essenze che usa il profumiere, secondo quanto dice il Cantico.
Organizzati in modo da partecipare ogni giorno alla santa Messa, per offrire assieme al sacerdote, a Dio Padre, il sacrificio del Redentore, per il tuo bene e quello di tutta la Chiesa. Gli Angeli sono sempre presenti in gran numero per onorare questo santo mistero; lo dice S. Giovanni Crisostomo: il trovarsi uniti ad essi per lo stesso fine ci incoraggerà nello sforzo di migliorarci.
Il coro della Chiesa trionfante e quello della Chiesa militante si uniranno a Nostro Signore in questa azione divina, per rapire il cuore di Dio Padre e conquistarci la sua misericordia; questo con Lui, in Lui e per Lui. 
E' motivo di grande felicità per un'anima offrire devotamente i propri affetti per u n bene così prezioso e desiderabile. 
Se per causa di forza maggiore non puoi essere presente con il corpo alla celebrazione di questo incomparabile Sacrificio, ci devi andare almeno con il cuore per parteciparvi spiritualmente.
A una certa ora del mattino, recati in chiesa spiritualmente, se non ti è dato altro modo; unisci la tua intenzione a quella di tutti i cristiani, e compi nel luogo dove ti trovi gli stessi atti interiori come se tu fossi realmente presente alla celebrazione della Santa Messa in qualche chiesa.

Per partecipare convenientemente alla Santa Messa o corporalmente o con la mente, occorre:

1. Dall'inizio fino a che il sacerdote salga l'altare, fa con lui la preparazione: ossia, mettiti alla presenza di Dio, riconosci le tue indegnità e chiedi perdono delle tue colpe.

2. Dal momento in cui il sacerdote giunge all'altare fino al Vangelo, considera, con una riflessione semplice e generica, la venuta di Nostro Signore in questo mondo e la sua Vita.

3. Da dopo il Vangelo fino al Credo, rifletti sulla predicazione del Salvatore; protesta di voler vivere e morire nella fede e nell'obbedienza alla sua santa Chiesa Cattolica.

4. Da dopo il Credo fino al Padre nostro, occupa il cuore ai misteri della Morte e Passione del nostro Redentore, attuati e essenzialmente rappresentati in questo santo Sacrificio, che tu offri a Dio Padre assieme al sacerdote ed al resto del popolo per la gloria di Dio Padre e la salvezza degli uomini.

5. Da dopo il Padre nostro fino alla Comunione, impegnati a far nascere nel cuore mille slanci; esprimi il desiderio ardente di giungere ad essere per sempre unita al Salvatore in un amore eterno.

6. Dalla Comunione fino alla fine, ringrazia la Maestà divina per l'Incarnazione, la Vita, la Morte, la Passione e l'Amore che ci dimostra in questo santo Sacrificio; pregalo in forza di questo, di essere sempre benigno con te, con i tuoi parenti, con i tuoi amici e con tutta la Chiesa; poi umiliati con tutto il cuore e ricevi con devozione la benedizione divina che nostro Signore ti impartisce per mezzo del suo ministro.

Ma se durante la Messa vuoi fare la tua meditazione sui misteri che stai seguendo giorno per giorno, non è necessario che tu segua queste indicazioni; sarà sufficiente che all'inizio manifesti la tua intenzione di voler adorare e offrire questo santo Sacrificio per mezzo della meditazione e dell'orazione, poiché in tutte le meditazioni ci sono, o esplicitamente o implicitamente, le operazioni sopra indicate.

Si converte l'uomo che scopre di essere amato da Dio

Concludiamo la giornata liturgica attraverso l'ormai consueto appuntamento di meditazione con le riflessioni di noti sacerdoti e movimenti religiosi. Oggi riflettiamo attraverso le parole di padre Ermes Ronchi:


La parola inaugurale di Gesù, premessa a tutto il Vangelo è: convertitevi. E subito il «perché» della conversione: perché il regno si è fatto vicino. Ovvero: Dio si è fatto vicino, vicinissimo a te, ti avvolge, è dentro di te. Allora «convértiti» significa: gìrati verso la luce, perché la luce è già qui. La conversione non è la causa ma l'effetto della tua «notte toccata dall'allegria della luce» (Maria Zambrano).
Immaginavo la conversione come un fare penitenza del passato, come una condizione imposta da Dio per il perdono, pensavo di trovare Dio come risultato e ricompensa all'im­pegno. Ma che buona notizia sarebbe un Dio che dà secondo le prestazioni? Gesù viene a rivelarci che il movimento è esattamente l'inverso: è Lui che mi incontra, che mi raggiunge, mi abita. Gratuitamente. Prima che io faccia qualcosa, prima che io sia buono, Lui mi è venuto vicino. Allora io cambio vita, cambio luce, cambio il modo di intendere le cose. Scrive padre Vannucci: «la verità è che noi siamo immersi in un mare d'amore e non ce ne rendiamo conto». Quando finalmente me ne rendo conto, comincia la conversione. Cade il velo dagli occhi, come a Paolo a Damasco. Abbandono le barche come i quattro pescatori, lascio le piccole reti per qualcosa di ben più grande.
Gesù passando vide... Due coppie di fratelli, due barche, un lavoro?
No, vede molto di più: in Simone bar Jona vede Kefa', Pietro, la roccia su cui fondare la sua chiesa; in Giovanni intuisce il discepolo dalla più folgorante definizione di Dio: Dio è amore; Giacomo sarà «figlio del tuono», uno che ha dentro la vibrazione e la potenza del tuono. Lo sguardo di Gesù è uno sguardo creatore, una profezia. Mi guarda, e vede in me un tesoro sepolto, nel mio inverno vede grano che matura, una generosità che non sapevo di avere, strade nel sole. Nel suo sguardo vedo per me la luce di orizzonti più grandi.
Venite dietro a me: vi farò pescatori di uomini. Raccoglieremo uomini per la vita. Li por­teremo dalla vita sepolta alla vita nel sole. Risponderemo alla loro fame di libertà, amore, felicità.
I quattro pescatori lo seguono subito, senza sapere dove li condurrà, senza neppure do­mandarselo: hanno dentro ormai le strade del mondo e il cuore di Dio.
Gesù camminava per la Galilea e annunciava la buona novella, camminava e guariva la vita.
La bella notizia è che Dio cammina con te, senza condizioni, per guarire ogni male, per curare le ferite che la vita ti ha inferto, e i tuoi sbagli d'amore. Dio è con te e guarisce. Dio è con te, con amore: la sola cosa che guarisce la vita.
Questo è il Vangelo di Gesù: Dio con voi, con amore.

Il ponte dell'amicizia

 Riceviamo e pubblichiamo una bellissima storia seguita dalla morale, segnalateci dalla nostra Enza! Leggete perchè così capirete il vero valore dell'amicizia e dell'unione che dovrebbe sempre prevalere sulla divisione e l'inimicizia...:


Questa è la storia di due fratelli che vissero insieme d’amore e d’accordo per molti anni. Vivevano in cascine separate, ma un giorno scoppiò una lite e questo fu il primo problema serio che sorse dopo 40 anni in cui avevano coltivato insieme la terra condividendo le macchine e gli attrezzi, scambiandosi i raccolti e i beni continuamente. Cominciò con un piccolo malinteso e crebbe fino a che scoppiò un diverbio con uno scambio di parole amare a cui seguirono settimane di silenzio. Una mattina qualcuno bussò alla porta di Luigi. Quando aprì si trovò davanti un uomo con gli utensili del falegname: Sto cercando un lavoro per qualche giorno”, disse il forestiero, forse qui ci può essere bisogno di qualche piccola riparazione nella fattoria e io potrei esserle utile per questo". -"Sì", disse il maggiore dei due fratelli, ho un lavoro per lei. Guardi là, dall’altra parte del fiume, in quella fattoria vive il mio vicino, beh! È il mio fratello minore. La settimana scorsa c’era una splendida prateria tra noi, ma lui ha deviato il letto del fiume perchè ci separasse. Egli deve aver fatto questo per farmi andare su tutte le furie, ma io gliene farò una. Vede quella catasta di pezzi di legno vicino al granaio? Ebbene voglio che costruisca uno steccato di due metri circa di altezza, non voglio vederlo mai più." Il falegname rispose: ”Mi sembra di capire la situazione". Il fratello maggiore aiutò il falegname a riunire tutto il materiale necessario e se ne andò fuori per tutta la giornata per fare le spese in paese.Verso sera, quando il fattore ritornò, il falegname aveva appena finito il suo lavoro. Il fattore rimase con gli occhi spalancati e con la bocca aperta. Non c’era nessuno steccato di due metri. Invece c’era un ponte che univa le due fattorie sopra il fiume. Era una autentica opera d’arte, molto fine, con corrimano e tutto. In quel momento, il vicino, suo fratello minore, venne dalla sua fattoria e abbracciando il fratello maggiore gli disse: -”Sei un tipo veramente in gamba. Ma guarda! Hai costruito questo ponte meravilloso dopo quello che io ti ho fatto e detto". E cosí stavano facendo la pace i due fratelli, quando videro che il falegname prendeva i suoi arnesi. -"No, no, aspetta". "Rimani per alcuni giorni ancora, ho parecchi lavori per te", disse il fratello maggiore al falegname. "Mi fermerei volentieri", rispose lui, ”ma ho parecchi ponti da costruire".
 

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Molte volte lasciamo che i malintesi e le stizze ci allontanino dalla gente a cui vogliamo bene, molte volte lasciamo che sia l’orgoglio a prevalere sui sentimenti, non permettere che ciò succeda nella tua vita. Impara a perdonare e apprezza quanto hai. Ricorda che perdonare non cambia nulla del passato, ma sì il futuro. Non conservare rancore nè sentimenti di amarezza che solo ti feriscono, ti allontanano da Dio e dalle persone che ti vogliono bene. Impara ad essere felice e a godere delle meraviglie che Dio ha creato. Egli ti ama e desidera che tu abbia una vita felice e piena di amore e armonia. Non permettere che un piccolo incidente rovini una grande amicizia, ricorda che il silenzio, a volte, è la miglior risposta. Ciò che più importa è una casa felice. Fa’ tutto quello che è nelle tue mani per creare un ambiente di pace e armonia. Ricorda che la miglior relazione è quella in cui l’amore tra due persone è più grande del bisogno che hanno l’una dell’altra.

Riflessioni pratiche di fede per ricavar profitto dalle cose visibili che ci si presentano in questa vita

Quando state nel vostro letto e nella vostra camera, pensate che ivi un giorno dovrete esser giudicato da Gesù Cristo.


Quando vedete morti che vanno a seppellirsi; pensate che lo stesso ha da succedere a voi.


Quando mirate l'oriuolo a polvere che scorre; pensate che così anche scorre la vostra vita e vi avvicinate alla morte.


Quando vedete i grandi di questa terra gloriarsi de' loro onori e ricchezze; compatite la loro pazzia, e dite: A me basta Dio.


Quando vedete qualche sepolcro superbo eretto ad alcuno; dite: Se costui è dannato, a che gli giovano questi marmi?


Quando vedete un albero secco; considerate la miseria di un'anima senza Dio, la quale non serve ad altro, che ad ardere nel fuoco dell'inferno.


Se mai vedete un reo che trema avanti il suo giudice; considerate il terrore che avrà un peccatore comparendo avanti a Gesù Cristo.


Quando udite tuoni strepitosi, e tremate, considerate il tremar che fanno i dannati nell'inferno, al sentire i tuoni della divina giustizia.


Quando vedete il mare tranquillo o tempestoso, considerate che tale è un'anima in grazia o in disgrazia di Dio.


Quando mirate fornaci, pensate che per li vostri peccati dovreste ardere per sempre nella fornace dell'inferno.


Quando mirate il cielo stellato; pensate che lassù avrete da essere un giorno a godere Dio, se l'amate in questa vita.


Quando mirate giardini fioriti, campagne o marine deliziose; pensate che altre delizie più grandi apparecchia Dio a coloro che lo sanno amare.


Quando vedete ruscelli che scorrono per li monti, e vanno ad unirsi al mare; così procurate voi di correre per unirvi a Dio.


Quando udite uccelli che cantano, e così a lor modo lodano Dio; lodatelo ancora voi con atti di amore.


Quando mirate qualche luogo, dove un tempo offendeste Dio; rinnovate il pentimento e 'l proposito di amarlo.


Quando vedete cagnuoli che vi sono così fedeli e grati per un poco di pane che loro date; proponete d'esser grato a Gesù Cristo che vi ha dato tutto se stesso.


Quando vedete fuoco e fiamme; desiderate che così ancora il vostro cuore arda d'amore verso Dio.


Quando mirate grotte, mangiatoie, o fieno; considerate Gesù bambino che un giorno nacque per vostro amore in una grotta, e fu collocato in una mangiatoia sul fieno.


Quando passate per un deserto, considerate i viaggi di Gesù fanciullo per li deserti d'Egitto.


Quando mirate seghe, ascie, martelli, e piane; considerate Gesù Cristo nel tempo di sua gioventù, quando nel mestiere di legnaiuolo travagliava nella bottega di Nazarette.


Quando mirate funi, spine, e chiodi; alzate la mente a quanto patì per voi Gesù Cristo nella sua passione.


Quando vedete agnelli che son condotti al macello; pensate con s. Francesco, che così fu condotto ancora Gesù innocente alla morte.


Quando mirate l'immagine di Gesù in croce; dite: Dunque, Dio mio, voi siete morto per me!


Quando mirate altari, calici e pianete; o pure vedete nelle campagne frumento ed uve; considerate l'amore che ci ha dimostrato Gesù Cristo nel dono fattoci del ss. sagramento dell'altare.




Sant'Alfonso Maria de' Liguori

Delle pene dell'inferno di Sant'Alfonso Maria de' Liguori - III ed ultima parte

Concludiamo oggi questo breve percorso che ci ha mostrato l'inferno quale luogo di eterni e indicibili dolori attraverso le parole di Sant'Alfonso Maria de' Liguori e lo facciamo con l'ultima parte che ci parla della pena più grande che rende l'inferno tale per l'infinito dolore che essa arreca: la perdita di Dio.




Le pene dell'inferno di Sant'Alfonso Maria de' Liguori

La pena di aver perduto Dio

Ma tutte queste pene son niente a rispetto della pena del danno. Non fanno l'inferno le tenebre, la puzza, le grida e il fuoco; la pena che fa l'inferno è la pena di aver perduto Dio. Dice S. Gio. Grisostomo: "Se anche dici mille inferni, non dici nulla d'uguale a quel dolore". Ed aggiunge S. Agostino che se i dannati godessero la vista di Dio, "Non sentirebbero alcuna pena, e lo stesso inferno sarebbe cambiato in paradiso". Per intendere qualche cosa di questa pena, si consideri che se taluno perde (per esempio) una gemma, che valeva 100 scudi, sente gran pena, ma se valeva 200 sente doppia pena: se 400 più pena. Insomma quanto cresce il valore della cosa perduta, tanto cresce la pena. Il dannato qual bene ha perduto? un bene infinito, che è Dio; onde dice S. Tommaso che sente una pena in certo modo infinita.
S. Ignazio di Lojola diceva: Signore, ogni pena sopporto, ma questa no, di star privo di Voi. Ma questa pena niente si apprende dai peccatori, che si contentano di vivere i mesi e gli anni senza Dio, perchè i miseri vivono fra le tenebre. In morte non però hanno da conoscere il gran bene che perdono. L'anima in uscire da questa vita, come dice S. Antonino, subito intende ch'ella è creata per Dio, Onde subito si slancia per andare ad abbracciarsi col suo sommo bene; ma stando in peccato, sarà da Dio discacciata. Se un cane vede la lepre, ed uno lo tiene con una catena, che forza fa il cane per romper la catena ed andare a pigliar la preda? L'anima in separarsi dal corpo, naturalmente è tirata a Dio, ma il peccato la divide da Dio, e la manda lontana all'inferno, "che hanno scavato un abisso tra voi e il vostro Dio" (Is. 59. 2). Tutto l'inferno dunque consiste in quella prima parola della condanna:
Allorchè Davide condannò Assalonne a non comparirgli più davanti, fu tale questa pena ad Assalonne che rispose: Dite a mio padre, che o mi permetta di vedere la sua faccia o mi dia la morte (2. Sam. 14. 24). Filippo II ad un grande che vide stare irriverente in chiesa, gli disse: Non mi comparite più davanti. Fu tanta la pena di quel grande, che giunto alla casa se ne morì di dolore. Che sarà, quando Dio in morte intimerà al reprobo: Va via che io non voglio vederti più. Voi (dirà Gesù ai dannati nel giorno finale) non siete più miei, io non sono più vostro.

Che pena è ad un figlio, a cui gli muore il padre, o ad una moglie quando le muore lo sposo, il dire: Padre mio, sposo mio, non ti ho da vedere più. Ah se ora udissimo un'anima dannata che piange, e le chiedessimo: Anima, perchè piangi tanto? Questo solo ella risponderebbe: Piango, perchè ho perduto Dio, e non l'ho da vedere più. Almeno potesse la misera nell'inferno amare il suo Dio, e rassegnarsi alla sua volontà. Ma no, se potesse ciò fare, l'inferno non sarebbe inferno; l'infelice non può rassegnarsi alla volontà di Dio, perchè è fatta nemica della divina volontà. Ne può amare più il suo Dio, ma l'odia e l'odierà per sempre; e questo sarà il suo inferno, il conoscere che Dio è un bene sommo e il vedersi poi costretto ad odiarlo, nello stesso tempo che lo conosce degno d'infinito amore. Il dannato odierà e maledirà Dio, e maledicendo Dio, maledirà anche i benefici che gli ha fatti, la creazione, la redenzione, i sacramenti, specialmente del battesimo e della penitenza, e sopra tutto il SS. Sacramento dell'altare. Odierà tutti gli angeli e santi ma specialmente l'angelo custode e i santi suoi avvocati, e più di tutti la divina Madre; ma principalmente maledirà le tre divine Persone, e fra queste singolarmente il Figlio di Dio, che un giorno è morto per la di lei salute, maledicendo le sue piaghe, il suo sangue, le sue pene e la sua morte.

Delle pene dell'inferno di Sant'Alfonso Maria de' Liguori - II parte

Continuiamo il nostro breve percorso che ci aiuta a riflettere sulla dannazione eterna attraverso le parole di Sant'Alfonso Maria de' Liguori. Oggi leggiamo la seconda parte che ci parla della pena del fuoco. Un'altra occasione ci viene data per riflettere sull'eterna condanna. Ecco perché non conviene peccare, non conviene darsi ai piaceri dei sensi.







Delle pene dell'inferno di Sant'Alfonso Maria de' Liguori

La pena del fuoco



La pena poi che più tormenta il senso del dannato, è il fuoco dell'inferno, che tormenta il tatto. "Castigo della carne dell'empio saranno fuoco e vermi» (Sir 7,17). Che perciò il Signore nel giudizio ne fa speciale menzione: "Andate lontano da me, maledetti nel fuoco eterno" (Mt. 41). Anche in questa terra la pena del fuoco è la maggior di tutte; ma vi è tanta differenza dal fuoco nostro a quello dell'inferno, che dice S. Agostino che i1 nostro sembra dipinto. E S. Vincenzo Ferreri dice che a confronto il nostro è freddo. La ragione è, perchè il fuoco nostro è creato per nostro utile, ma il fuoco dell'inferno è creato da Dio a posta per tormentare. Lo sdegno di Dio accende questo fuoco vendicatore. Quindi da Isaia il fuoco dell'inferno è chiamato spirito d'ardore: "Quando il Signore avrà lavato le brutture (...) con lo spirito dell'incendio" (Is 4,4). Il dannato sarà mandato non al fuoco, ma nel fuoco: "Andate lontano da me, maledetti nel fuoco eterno". Sicchè il misero sarà circondato dal fuoco, come un legno dentro una fornace. Si troverà il dannato con un abisso di fuoco da sotto, un abisso di sopra, e un abisso d'intorno. Se tocca, se vede, se respira; non tocca, non vede, ne respira altro che fuoco. Starà nel fuoco come il pesce nell'acqua.


Ma questo fuoco non solamente starà intorno al dannato, ma entrerà anche dentro le sue viscere a tormentarlo. Il suo corpo diventerà tutto di fuoco, sicchè bruceranno le viscere dentro del ventre, il cuore dentro del petto, le cervella dentro il capo, il sangue dentro le vene, anche le midolla dentro l'ossa: ogni dannato diventerà in se stesso una fornace di fuoco. Taluni non possono soffrire di camminare per una via battuta dal sole, di stare in una stanza chiusa con una braciera, non soffrire una scintilla, che ondeggia da una candela; e poi non temono quel fuoco, che divora, come dice Isaia: "Chi di noi può rimanere presso un fuoco divorante?" (Is. 33,14). Siccome una fiera divora un capretto, così il fuoco dell'inferno divora il dannato; lo divora, ma senza farlo mai morire. Sei pazzo, dice S. Pier Damiani (parlando al disonesto), vuoi contentare la tua carne, che verrà un giorno in cui le tue disonestà diventeranno tutte pece nelle tue viscere, che farà più grande e più tormentosa la fiamma che ti brucerà nell'inferno.

Aggiunge S. Girolamo che questo fuoco porterà con se tutti i tormenti e dolori che si patiscono in questa terra, dolori di fianco e di testa, di viscere, di nervi. In questo fuoco vi sarà anche la pena del freddo. Ma sempre bisogna intendere che tutte le pene di questa terra sono un'ombra, come dice il Crisostomo, a paragone delle pene dell'inferno: "Pone ignem, pone ferrum, quid, nisi umbra ad illa tormenta?".

Le potenze anche avranno il loro proprio tormento. Il dannato sarà tormentato nella memoria, col ricordarsi del tempo che ha avuto in questa vita per salvarsi, e l'ha speso per dannarsi; e delle grazie che ha ricevute da Dio, e non se ne ha voluto servire. Nell'intelletto, col pensare al gran bene che ha perduto, paradiso e Dio; e che a questa perdita non vi è più rimedio. Nella volontà, in vedere che gli sarà negata sempre ogni cosa che domanda. Il misero non avrà mai niente di quel che desidera, ed avrà sempre tutto quello che detesta, che saranno le sue pene eterne. Vorrebbe uscir dai tormenti, e trovar pace, ma sarà sempre tormentato, e non avrà mai pace.

Delle pene dell'inferno di Sant'Alfonso Maria de' Liguori - I parte

Cominciamo questo breve appuntamento suddiviso in tre parti che ci presenterà, attraverso le parole di Sant'Alfonso Maria de' Liguori, l'inferno per riflettere cosa voglia realmente dire la dannazione in quella prigione oscura di eterni dolori. A quanti dicono che l'inferno non esiste, a quanti pensano che laggiù si possa sopportare qualcosa pur di continuare nei loro peccati, a quanti scherzano su quel terribile luogo, è dedicato questo appuntamento e queste riflessioni del Santo Dottore perché possano cominciare a riflettere seriamente, perché possano convertirsi per una vita santa, perché l'inferno è un luogo "dove sarà pianto e stridore di denti", un luogo nel quale dobbiamo augurarci di non andare, un luogo che possiamo evitare facendo la Volontà di Dio e cioè facendo del bene e non peccando.


Cominciamo a leggere la prima parte che ci mostra come è realmente l'inferno e la pena alla quale sono destinati i peccatori:




Delle pene dell'inferno di Sant'Alfonso Maria de' Liguori

La pena del senso


Due mali fa il peccatore, allorchè pecca, lascia Dio sommo bene, e si rivolta alle creature: "Due malvagità ha commesso il mio popolo: hanno abbandonato me, sorgente di acqua viva, e si sono scavate cisterne, cisterne screpolate che non contengono l'acqua". Perchè dunque il peccatore si volta alle creature con disgusto di Dio, giustamente nell'inferno sarà tormentato dalle stesse creature, dal fuoco e dai demoni, e questa è la pena del senso. Ma perchè la sua colpa maggiore, dove consiste il peccato, è il voltare le spalle a Dio, perciò la pena principale che sarà nell'inferno, sarà la pena del danno. Che è la pena d'aver perduto Dio.

Consideriamo prima la pena del senso. È di fede che vi è l'inferno. Che cosa è questo inferno? È il luogo dei tormenti, così chiamò l'inferno l'Epulone dannato (Luca 16. 28). Luogo di tormenti, dove tutti i sensi e le potenze del dannato hanno da avere il loro proprio tormento; e quanto più alcuno in un senso avrà offeso Dio, tanto più in quel senso avrà da esser tormentato. "Per quanto di sfarzo s'è data, altrettanto a lei date di tormento" {Apoc. 18. 7). Sarà tormentata la vista colle tenebre. Luogo tenebroso e coperto dalla caligine di morte. Che compassione fa il sentire che un povero uomo sta chiuso in una fossa oscura per mentre vive, per 40-50 anni di vita! L'inferno è una fossa chiusa da tutte le parti dove non entrerà mai raggio di sole o d'altra luce. Il fuoco che sulla terra illumina, nell'inferno sarà tutto oscuro. "La voce del Signore che forgia lingue di fuoco". Spiega S. Basilio: II Signore dividerà dal fuoco la luce, onde tal fuoco farà solamente l'officio di bruciare, ma non d'illuminare; e lo spiega più in breve Alberto Magno: Lo stesso fumo che uscirà da questo fuoco, componerà quella procella di tenebre, di cui parla S. Giacomo, che accecherà gli occhi dei dannati. Dice S. Tommaso che ai dannati è riservato tanto di luce solamente, quanto basta a più tormentarli. Vedranno in quel barlume di luce la bruttezza degli altri reprobi e dei demoni, che prenderanno forme orrende per spaventarli.

Sarà tormentato l'odorato. Che pena sarebbe trovarsi chiuso in una stanza con un cadavere fracido? "dai cadaveri salirà il fetore» (Is 34. 3). Il dannato ha da stare in mezzo a tanti milioni d'altri dannati, vivi alla pena, ma cadaveri per la puzza che mandano. Dice S. Bonaventura che se un corpo di un dannato fosse cacciato dall'inferno, basterebbe a far morire per la puzza tutti gli uomini. E poi dicono alcuni pazzi: Se vado all'inferno, non sono solo. Miseri! quanti più sono nell'inferno, tanto più penano.

Più penano (dico) per la puzza, per le grida e per la strettezza; poichè staranno nell'inferno l'un sopra l'altro, come pecore ammucchiate in tempo d'inverno. Anzi più, staranno come uve spremute sotto il torchio dell'ira di Dio. Dal che ne avverrà poi la pena dell'immobilità. Sicchè il dannato siccome cadrà nell'inferno nel giorno finale, cosi avrà da restare senza cambiare più sito e senza poter più muovere né un piede, né una mano, per mentre Dio sarà Dio.

Sarà tormentato l'udito cogli urli continui e pianti di quei poveri disperati. I demoni! faranno continui strepiti. Che pena è quando si vuole dormire e si sente un infermo che continuamente si lamenta, un cane che abbaia, o un fanciullo che piange? Miseri dannati, che hanno da sentire di continuo per tutta l'eternità quei rumori e le grida di quei tormentati! Sarà tormentata la gola colla fame; avrà il dannato una fame canina. Ma non avrà mai una briciola di pane. Avrà poi una tale sete, che non gli basterebbe tutta l'acqua del mare; ma non ne avrà neppure una stilla: una stilla ne domandava l'Epulone, ma questa non l'ha avuta ancora, e non l'avrà mai, mai.

Io non lo conoscevo... e ora, lo conosci?

Concludiamo la giornata liturgica attraverso l'ormai consueto appuntamento di meditazione con le riflessioni di noti sacerdoti e movimenti religiosi. Oggi riflettiamo attraverso le parole di don Alberto Brignoli:


Vi è mai capitato di dover raccomandare a qualcun altro una persona che non conoscete? Credo che nessuno di voi oserebbe raccomandare un medico sconosciuto a un amico bisognoso di cure; così come non consigliereste mai a un familiare come buon avvocato un professionista di cui nemmeno conoscete le capacità, almeno per sentito dire. Rientra abbastanza nei nostri schemi mentali il concetto per cui trasmettiamo agli altri nozioni o informazioni delle quali abbiamo conoscenza diretta. È vero, esistono pure i ciarlatani che confondono con mille parole pur senza conoscere nulla di ciò che dicono, spesso solo per il gusto di parlare: ad ogni modo, abbiamo ancora una capacità di giudizio tale per cui possiamo distinguere chi parla per conoscenza diretta - e quindi la sua testimonianza è vera - e chi parla tanto per parlare.
Anche la struttura del Vangelo di Giovanni (che ci introduce solo per oggi al Tempo Ordinario, da domenica ripartiremo in maniera continuata con il Vangelo di Matteo) pare rispondere a questa logica: in diversi passi della sua opera, Giovanni parla di una testimonianza resa vera dalla conoscenza diretta di ciò che si annuncia: "Ho visto, ho creduto, perciò annuncio, e la mia testimonianza è vera", questo sembra essere un po' lo stile nella descrizione della sua esperienza di Cristo.
Eppure, nel brano che abbiamo letto quest'oggi, la logica del testimoniare per conoscenza diretta sembra non funzionare. Per ben due volte assistiamo a Giovanni il Battista che dopo aver proclamato Cristo come "Agnello di Dio" (una delle espressioni più famose del Battista nei confronti del Messia) dice che lui "non lo conosceva"… La cosa potrebbe già sembrare stonata da un punto di vista storico: pare assodata la lontana parentela tra Gesù e il Battista per via della familiarità tra le rispettive madri, Maria ed Elisabetta. È probabile quindi che dietro a questa affermazione di "non conoscenza" del Messia ci sia qualcosa che va al di là della pura veridicità dell'affermazione. Al di là di quello che Giovanni afferma, forse c'è un insegnamento da scoprire.
Se guardiamo alle due affermazioni "Io non lo conoscevo", entrambe proseguono in modo avversativo, con un "ma", con un "eppure". Ed entrambe, hanno un unico scopo: quello di presentare al mondo il Cristo come Figlio di Dio, nonostante non se ne abbia avuto una conoscenza diretta. "Io non lo conoscevo, eppure sono venuto a battezzare nell'acqua perché egli fosse manifestato a Israele"; "Io non lo conoscevo, eppure Colui che mi ha inviato a battezzare mi disse…". Ciò che dà senso a queste due affermazioni è la sintesi che ne viene fatta alla fine e che riporta tutto nella logica giovannea del "credere e testimoniare per conoscenza": "Io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio". Tra l'altro, il Battista non afferma di essere un privilegiato che ha ricevuto una rivelazione particolare da Dio riguardo al Cristo: lo attendeva, lo predicava imminente, eppure la sua conoscenza viene da ciò che tutti hanno visto nel Giordano - la discesa dello Spirito sotto forma di colomba - ma che solo chi vive nello Spirito è stato capace di riconoscere.
Credere e testimoniare Cristo, allora, non è un privilegio che viene da particolari rivelazioni: è riconoscere la voce dello Spirito che ce lo indica presente nel mondo, come fu per il Battista. Come mai nel Vangelo di oggi questo stile particolare di Giovanni, uno stile che - solo in apparenza - sembra contraddire ciò che è parte del suo bagaglio culturale (la testimonianza per conoscenza diretta)?
Alcuni esegeti - che certamente ne sanno di Bibbia più di me - dicono che questa duplice affermazione del Battista posta all'inizio del suo Vangelo sia servita a Giovanni per chiarire un tema presente nella sua comunità cristiana. Molti membri della sua comunità non avevano conosciuto il Cristo di persona: era una comunità nata in ambiente extra-giudaico (in Asia Minore), e soprattutto era una comunità "tardiva" rispetto a quelle che da subito fecero a capo a Pietro, a Paolo, o a Giacomo. Siamo quasi alla conclusione del I secolo dopo Cristo, e quella "parusìa", quel ritorno di Gesù nella gloria che tutti attendevano non sembrava essere poi così imminente. Per questo motivo, nella comunità di Giovanni si stava creando un certo scollamento: "Ma come? Noi non abbiamo conosciuto di persona Gesù, il suo arrivo nella gloria non sembra poi così vicino… e come possiamo dirci credenti in lui, se non ne abbiamo avuto una conoscenza diretta?". Non dimentichiamo l'ambiente greco, razionalista, in cui questa comunità comunque si forma. E allora Giovanni si preoccupa da subito nel suo Vangelo di far comprendere che il Cristo può essere conosciuto, amato, testimoniato, pur non avendone avuto esperienza personale, o pur non avendo assistito a certe sue manifestazioni gloriose come testimoni diretti: è il caso del Battista, appunto, che conosce di persona Gesù ma lo riconosce come Cristo solo nel momento in cui si apre all'azione dello Spirito; è il caso di Tommaso, che lo conosce e lo vede morto, ma lo riconosce Risorto solo per intervento del Maestro a cui Giovanni fa proclamare ciò che tutti volevano da lui sentirsi dire: "Beati coloro che pur non avendo visto, crederanno".
La fede cristiana, allora, non è una sorta di trasmissione di conoscenze per favoritismi ("Ti faccio conoscere, ti raccomando, per cui ti mando avanti"), e nemmeno attraverso rivelazioni personali o miracolose che pur potendo accadere di certo non rappresentano il "motivum fidei" principale. La fede cristiana è un'esperienza personale di Gesù Cristo che avviene sotto l'impulso dello Spirito grazie alla trasmissione della stessa fede da parte di chi, prima di noi, ha conosciuto la Buona Notizia del Vangelo e ce l'ha comunicata: ecco quindi la necessità di una comunità di credenti, di una Chiesa, che ti conduca all'incontro con Cristo.
Ma quanti, oggi, possono dire di conoscere il Cristo? Non mi riferisco alla gente che professa un altro Credo religioso o a chi (sempre che ce ne siano ancora) nel mondo non ha mai sentito pronunciare la parola "Gesù". Mi riferisco al nostro mondo "cristiano", di battezzati (nemmeno tutti, ora, per la verità) che del messaggio di Cristo sanno davvero poco o nulla.
Mi confrontavo in questi giorni con alcuni missionari e missionarie italiani che operano in Argentina (alcuni da oltre mezzo secolo…), e tutti quanti lamentavano la necessità di nuovi invii, di nuovi missionari e testimoni del Vangelo per rimpiazzare le loro ormai limitate forze (anche per l'età avanzata) nell'annunciare il Vangelo a un popolo (quello argentino) che è nato e si dice profondamente cristiano, ma che in fondo non lo è più o fatica ad esserlo. E facevano affermazioni accoratamente drammatiche: "Le famiglie sono disgregate, i giovani non hanno più interessi, alla Chiesa si accorre solo per i Sacramenti dell'Iniziazione e dopo la Cresima non vedi più nessuno, si sposano in Chiesa solo se ne hanno voglia, non ci sono più vocazioni; in tempi politicamente e socialmente più difficili c'era maggior testimonianza cristiana, ora che siamo liberi nessuno crede più…", e via di questo passo, affermando la necessità di una nuova evangelizzazione per una società scristianizzata.
Ho ascoltato.
E dopo un istante di silenzio, l'unica cosa che mi sono permesso di chiedere loro - e la lascio come domanda conclusiva, vagante, senza risposta - è stata questa: "State parlando dell'Italia, vero?".

Il cerchio della gioia


Un giorno,non molto tempo fa,un contadino si presentò alla porta di un convento e bussò energicamente.
Quando il frate portinaio aprì la pesante porta di quercia,il contadino gli mostrò sorridendo,un magnifico grappolo d'uva. "Frate portinaio"disse il contadino,"sai a chi voglio regalare questo grappolo d'uva che è il più bello della mia vigna?". "Forse all'abate o a qualche padre del convento",rispose."No,a te!"."A me?".Il frate portinaio arrossì tutto per la gioia: "Lo vuoi dare proprio a me?"."Certo, perché mi hai sempre trattato con amicizia e mi hai aiutato quando te lo chiedevo. Voglio che questo grappolo d'uva ti dia un po' di gioia".La gioia semplice e schietta che vedeva sul volto del frate portinaio illuminava anche lui. Il frate portinaio mise il grappolo d'uva bene in vista e lo rimirò per tutta la mattina.
Era veramente un grappolo stupendo. Ad un certo punto gli venne un'idea:"Perché non porto questo grappolo all'abate per dare un po' di gioia anche a lui?". Prese il grappolo e lo portò all'abate. L'abate ne fu sinceramente felice. Ma si ricordò che c'era nel convento un vecchio frate ammalato e pensò: "porterò a lui il grappolo così si solleverà un poco".Così il grappolo d'uva emigrò di nuovo. Ma non rimase a lungo ammalato. Costui pensò infatti che il grappolo avrebbe fatto la gioia del frate cuoco,che passava la giornata a sudare sui fornelli,e glielo mandò. Ma il frate cuoco lo diede al frate sacrestano(per dare un po' di gioia anche a lui),questi frate più giovane del convento,che lo portò ad un altro,che pensò bene di darlo a un altro. Finché, di frate in frate,il grappolo d'uva tornò dal frate portinaio(per portargli un po' di gioia). Così fu' chiuso il cerchio!

Gesù è il nostro tutto

Se brami guarire dalle tue ferite, Gesù è il medico.
Se il bruciore della febbre ti asseta, Egli è la fonte. Se le colpe ti rimordono, Egli è il perdono.
Se hai bisogno di aiuto possente, Egli è la forza.
Se la morte ti fa paura, Egli è la vita. Se aneli alla patria celeste, Egli è la via.
Se le tenebre ti sgomentano, Egli è la luce. Se hai fame di certezza, Egli è la verità.
Se ti occorre il cibo che sazia, Egli è il pane che nutre in eterno".


Sant'Ambrogio


Preghiera per la conversione

Visto che abbiamo molto a che fare con peccatori ostinati, ecco la giusta preghiera, di Santa Caterina, che possiamo recitare per la loro conversione: 

Mio Signore, io so che se mirate alle nostre iniquità non vi sarà alcuno che possa scampare l'eterna dannazione. Ma ricordatevi che avete sofferto i più crudeli stra­zi, sparso il vostro Sangue preziosissimo e siete morto al solo fine di perdonarci. Io altra consolazione non ho sulla terra, se non di vedere i peccatori che tornano ai vostri piedi. Concedetemi la conversione di questo peccatore ostinato: (DIRE IL NOME) l'anima sua è nelle vostre mani.

1 Pater, 3 Ave e 1 Gloria

Sangue preziosissimo del mio Gesù l'anima di questo peccatore ostinato guariscila tu!

Invocazione a Dio buono

Abbiamo dedicato questa giornata a Sant'Agostino d'Ippona. Proprio di Sant'Agostino è l'invocazione che segue, per riflettere sulla bontà del nostro Dio.


T'invoco, Dio mio, misericordia mia che mi hai creato e non hai dimenticato chi ti ha dimenticato. T'invoco nella mia anima, che prepari a riceverti col desiderio che le ispiri. Non trascurare ora la mia invocazione. Tu mi hai prevenuto prima che t'invocassi, insistendo con appelli crescenti e multiformi affinché ti ascoltassi da lontano e mi volgessi indietro chiamando te che mi richiamavi. Tu, Signore, cancellasti tutte le mie azioni cattive e colpevoli per non dover punire le mie mani, con cui ti ho fuggito; prevenisti invece tutte le mie azioni buone e meritevoli, per poter premiare le tue mani, con cui mi hai foggiato. Tu esistevi prima che io esistessi, mentre io non esistevo così che potessi offrirmi il dono dell'esistenza. Eccomi invece esistere grazie alla tua bontà, che prevenne tutto ciò che mi hai dato di essere e da cui hai tratto il mio essere. Tu non avevi bisogno di me, né io sono un bene che ti possa giovare, Signore mio e Dio mio. Il mio servizio non ti risparmia fatiche nell'azione, la privazione del mio ossequio non menoma la tua potenza, il mio culto per te non equivale alla coltura per la terra, così che saresti incolto senza il mio culto. Io ti devo servizio e culto per avere da te la felicità, poiché da te dipende la mia felicità.

Umiltà e Purezza: Le ali che quasi divinizzano

Sii amante e praticante della semplicità e dell’umiltà, non curarti dei giudizi del mondo, perché se questo mondo non avesse qualcosa da dire contro di te, non saresti veramente servo di Dio.
L’umiltà e la carità vanno di pari passo. L’una glorifica mentre l’altra santifica. L’umiltà e la purezza dei costumi sono ali che elevano fino a Dio e quasi divinizzano. Perciò sii sempre e in tutto umile, serbando sempre gelosamente la purezza del tuo corpo e del tuo cuore.

Spirito e acqua per la vita che sorge

Concludiamo la giornata liturgica attraverso l'ormai consueto appuntamento di meditazione con le riflessioni di noti sacerdoti e movimenti religiosi. Oggi riflettiamo attraverso le parole di padre Ermes Ronchi:


Gesù uscì dall'acqua: ed ecco, si aprirono i cieli, e vide lo Spirito di Dio discendere come una colomba sopra di lui. Lo Spirito e l'acqua sono le più antiche presenze della Bibbia, entrano in scena già dal secondo versetto della Genesi: la terra era informe e deserta, ma «lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque».
Il primo movimento della vita nella Bibbia è una danza dello Spirito sulle acque. Come una colomba che cerca il suo nido, che cova la vita che sta per nascere. Da allora sempre lo Spirito e l'acqua sono legati al sorgere della vita. Per questo sono presenti nel Battesimo di Gesù e nel nostro Battesimo: come vita sorgente.
Di quale vita si tratta? Lo spiega la Voce dal cielo: Questi è il Figlio mio, l'amato: in lui ho posto il mio compiacimento.
«Figlio» è la prima parola. Ogni figlio vive della vita del padre, non ha in se stesso la propria sorgente, viene da un altro. Quella stessa voce è scesa sul nostro Battesimo e ci ha dichiarati figli, i quali non da carne né da volere d'uomo ma da Dio sono stati generati ( Gv 1,13). Bat­tesimo significa immersione: siamo stati immersi dentro la Sorgente, ma non come due cose separate ed in fondo estranee, come il vestito e il corpo, ma per diventare un'unica cosa, co­me l'acqua e la Sorgente, come il tralcio e la Vite: la nostra carne in Dio in risposta a Dio nella nostra carne, il farsi uomo di Dio che genera 'l'indiarsi' (Dante) dell'uomo. Il nostro abitare in Dio dopo che Dio è venuto ad abitare in mezzo a noi (Gv 1,14), il mio Natale dopo il suo Natale.
Amato è la seconda parola. Prima che tu agisca, prima di ogni merito, che tu lo sappia o no, ogni giorno appena ti svegli, il tuo nome per Dio è «amato». Immeritato amore, che precede ogni risposta, lucente pregiudizio di Dio su ogni creatura.
Mio compiacimento è la terza parola. Termine raro e prezioso che significa: tu - figlio - mi piaci. C'è dentro una gioia, un'esultanza, una soddisfazione, c'è un Dio che trova piacere a stare con me e mi dice: tu, gioia mia!
E mi domando quale gioia posso regalare al Padre, io che l'ho ascoltato e non mi sono mosso, che non l'ho mai raggiunto e già perduto, e qualche volta l'ho perfino tradito. Solo un amore immotivato spiega queste parole. Amore puro: avere un motivo per amare non è amore vero. E un giorno quando arriverò davanti a Dio ed Egli mi guarderà, so che vedrà un pover'uomo, nient'altro che una canna incrinata, il fumo di uno stoppino smorto.
Eppure so che ripeterà proprio a me quelle tre parole: Figlio mio, amore mio, gioia mia. Entra nell'abbraccio di tuo padre!

La mormorazione: una ferita alla carità

 Pubblichiamo oggi una breve riflessione di un nostro caro amico, Fabio, che salutiamo caramente. E' un'ottima riflessione che pone l'attenzione su un vizio, purtroppo, diffuso anche in mezzo a noi cristiani:

Asteniamoci dalla mormorazione. Noi non siamo chiamati a giudicare i nostri fratelli. Detestiamo questo vizio, ricordando che la carità ci obbliga ad evitarlo ad ogni costo.

Tutti sappiamo che la mormorazione consiste nel manifestare ad un altro le mancanze del nostro prossimo, spesso distruggendo il suo buon nome. Ciò avviene ogni volta che riportiamo i difetti altrui. Forse con maggiore danno se lo facciamo senza indicare detti difetti, ma usando espressioni che alludono a cose nascoste; così, per esempio, la frase: "Se io potessi parlare!"; oppure, nell'ascoltare maldicenze, rispondere: "Io anche avrei da dire, ma preferisco tacere". Questo è terribile perché credo che una tale riserva danneggi molto più della manifestazione aperta di ciò che è successo; induce a sospettare, infatti, che si nascondano cose molto gravi.
Qualcuno potrebbe dire: «Io, quando parlo del mio prossimo, riferisco sempre cose risapute, per cui non credo di togliere la buona riputazione, dato che quello che dico non l'ho visto io ma mi è stato riferito. In tal caso la mia mancanza non è tanto grave perché si tratta di cose pubblicamente conosciute. Si sa che, quando un delitto è pubblico, diminuisce la gravità del parlarne».

Io credo invece che anche in quest'ultimo caso chi si compiace di riferire le mancanze dei propri fratelli dimostra di avere nel petto un cuore completamento freddo, privo di amore e di carità.Vediamo come Egli si è comportato con i più grandi peccatori. Riguardo a Giuda, giunto il momento di manifestare il suo tradimento, lo fa con molta carità e delicatezza, senza palesare il suo nome. Egli dice: "Colui che ha intinto con me la mano nel piatto, quello mi tradirà" (Mt 26, 23). In tal modo ciascuno prese rivolta a sé l'allusione e tutti chiesero pieni di spavento "Signore, sono forse io?". Gesù, sebbene li vedesse spaventati, non fece alcun nome, solo disse in segreto a Giovanni "Colui per il quale intingerò un boccone e glielo darò" (Gv 13, 26). E lo fece con tanta discrezione che nessun altro se ne accorse. Se Gesù manifestò questo al suo amato discepolo fu perché Giovanni lo amava profondamente. Colui che ama ha carità verso i propri fratelli; tace e nasconde le loro mancanze.

Siamo caritatevoli, perché la carità è il vincolo che ci unisce gli uni agli altri e tutti a Gesù. In ogni momento della nostra vita, solleviamo gli occhi più in alto e pensiamo che sarà veramente degno di approvazione in noi, non questo o quel metodo di virtù, ma il frutto della carità. Questo è ciò che Gesù ci chiede.

Tu sei la mia vita nell'eternità

Carissimi, meditiamo la presenza viva di Gesù nell'Eucaristia, atraverso questa riflessione di don Dolindo Ruotolo:

Nel mondo tutto è morte, tutto è rovina; noi in realtà non viviamo, ma moriamo tutti i giorni, camminiamo su questa terra, e quasi per ironia diciamo di vivere: «quotidie morior» dice san Paolo. In questa carne si sente la conseguenza del peccato, o quella che san Paolo chiama lo stipendio di questo triste capitale, la morte: «stipendium peccati mors». Noi ce ne sentiamo aggravate le spalle e sentiamo la morte in tutti i muscoli nostri e sotto dei nostri occhi in realtà tutto muore: cadono le foglie, si appassiscono i fiori, tramonta il sole, si logorano gli stessi abiti che indossi. È tutto uno spettacolo di morte, di passaggio; come è tutto uno spettacolo di vita, di ritorno. Noi, però, del ritorno delle cose umane non ci consoliamo, perché in fondo, per noi, ogni ritorno segna un nuovo passaggio.

Così diceva, rammaricato, il santo Giobbe: «L'albero conserva la sua speranza, se è tagliato ripulluna, ma a me quale speranza è riservata?"

Io sento Gesù come un Padre a cui è stato detto: «Vogliamo sentire una poesia ancora più bella». E tu ci rispondi: «E se vi facessi sentire una cosa veramente più bella, come rimarreste voi? sareste come annientati dalla dolcezza!».

«Tu non sei, o Gesù mio, solo la mia vita spirituale, sei la mia vita nella risurrezione, la mia vita nell'eternità.

Eccomi ancora una volta ai piedi tuoi. Gli anni mi pesano, la vita si trascina faticosamente verso il sepolcro, io sento in me una nostalgia, una malinconia... qualche cosa di vaporoso che non arrivo a discernere, che non riesco a distinguere. Mi sento annientato, umiliato, confuso; mi pare di essere, se è possibile dire, un ramo staccato dal tronco, un tralcio separato dalla vite.

Io ti guardo, mi raccolgo, ed ecco che la morte mi appare bella, è un passaggio verso di Te; il sepolcro mi appare glorioso, è un omaggio alla tua grandezza, una confessione della mia nullità. L'immagine stessa di un corpo putrefatto mi appare poetica perché Tu, Tu hai segnato quella carne e quelle ossa, della tua vita immortale, ed è per Te che questo mio corpo non è qualche cosa che si è dissolto e si è marcito, ma è propriamente e veramente la semente che è riposta nel terreno per sbocciare a suo tempo.

Tu, Redentore mio, sei il filo germinatore, e, se me lo permetti, il cotilèdone

Foglia carnosa che accompagna l'embrione delle piante fanerogame per nutrirlo mentre germoglia (n.d.r.) germinatore.
Io davanti a Te sento la mia immortalità anche nel corpo, non perché ne abbia diritto, ma perché risuoni in me l'eco della tua divina parola e della tua promessa: «Chi mangia il mio corpo, e beve il mio sangue sarà risuscitato da me nell'ultimo giorno». 


Dunque, Tu sei la vita di questa stessa carne che marcisce, di questo stesso corpo che declina, di questa stessa vita che dispare, perché Tu sei la Risurrezione e la vita.

Io morirò, Gesù mio, morirò. Oh, dolce momento, o morte che diventi vita!

Due lottatori si contendono il mio povero frale: da una parte lo spettro scarno della morte, la quale ha mandato davanti a sé, la sua staffetta, direi quasi: l'infermità, il malanno, il dolore, l'affanno.

Tu sei l'altro lottatore, il vincitore della morte, la Resurrezione e la vita. Tu l'avevi detto, Redentore mio: «Se la morte ti incoglie, chiama­mi, io sono la Resurrezione e la vita». Tu vieni vivo, cioè inondi, inondi di gioia la mia piccola stanzuccia; si accendono intorno al mio letto le candele, tremola la fiamma, risplende e vive anche la piccola candela che prima giaceva separata e come morta (La candela nella Chiesa è l'immagine della vita di Gesù).

Tu vieni, io ti invoco. La morte si nasconde, le sue scarne mani si ritirano, il suo dominio è spezzato, tu hai teso verso di me il dito tuo onnipotente e per il Tesoro Eucaristico riproduci la palpitazione vera del Sacrificio tuo della Croce.

Tu l'hai detto severamente: «Dov'è o morte la tua vittoria?» Ella è svanita.

Tu hai nutrito la tua creatura; nel nutrirla come viatico le hai dato il principio della vita eterna. La creatura tua è stata già da te trasportata fuori del suo corpo, per così dire; Tu nel Viatico santo l'hai fatta già cittadina del Cielo, dimodochè questo corpo non può dire più che cade sotto i colpi terribili della morte, ma si addormenterà nelle braccia tue, reclinerà sul tuo petto il suo capo stanco, passerà, e lascerà le spoglie perché tu le hai preparato il manto reale della gloria, perché tu stesso l'accompagni nell'ingresso della Vita eterna.

Tu mi hai fatto per te, e morendo sulla Croce mi hai predestinato al Cielo. Ebbene, Gesù Cristo mio, non mi hai vista mai bambina, piangere sola in una stanza, smarrita, senza nessuno; non mi hai vista mai in una strada, sola, e come abbandonata, lacrimare?

Sono tanto piccola, atomo impercettibile che di fronte alla mia terra mi sento già smarrita, che non so rintracciare, magari, la via per ritornare a casa. Che cosa farei io, uscendo fuori di questo mondo, se tu non mi accompagnassi? Sono figlia tua e tu vieni nella morte per accompagnarmi nell'eternità.

Ecco, l'anima si stacca dal corpo; è un istante, è un momento. Eccola davanti a Dio: quest'anima non sente che il peso delle sue iniquità e delle sue colpe, non sente che l'oppressione del suo nulla; e siccome esce sempre macchiata, benché tenuemente, ma sempre macchiata, quest'anima è come annebbiata, non ritrova il suo Dio, benché vi tenda, vi tenda,benché si trovi già alla sua divina presenza.

Tu, Redentore mio bello, Tu sei per me la guida, la luce, la forza, la riparazione della mia miseria; l'anima mia è stata raccolta in un carce­re tenebroso dove si purifica. Io, io gemo, ardo, spasimo, mi torturo, grido, grido, grido al mio Dio, grido ai miei cari, grido alla Chiesa; e Tu ti offri, e dalla terra sale il profumo dell'amore tuo Eucaristico.

Io mi sento rinfrescata, rigenerata, rifatta. La caligine si stempera, si dilegua, appare l'eterno, l'infinito Sole: Dio Uno e Trino.

Tu, Gesù mio sei la mia luce, il mio lume di gloria, la mia forza, la mia spinta. Io volo, volo e nell'infinita Trinità io scorgo il Mediatore mio, io ricordo le tue fattezze umane. Padre mio, Tu sei la mia vita eterna. Cosi sia.

Sezione dedicata alla nostra amica Patrizia:

Il Dolore solo se è accettato e offerto diviene gioia, altrimenti può diventare disperazione. Il maligno tenta sempre di farci imboccare questa strada, che porta alla distruzione di sè e degli altri.
La domanda, il grido ci salva, perchè, come un bambino quando invoca la mamma è aiutato da lei, a maggior ragione o tanto più la nostra Mamma Celeste viene in nostro soccorso, portandoci lo Spirito Consolatore che ci fa ritornare la speranza.

Questo dolore non è capito dagli uomini, difficilmente ci possono aiutare, di solito LO aumentano!

Solo TU Signore ci comprendi totalmente, perchè siamo opera Tua. Fa' o Signore che possiamo amare anche chi non comprendiamo o non ci comprende, grazie. (Patrizia)

Gesù Cristo

Gesù Cristo
«Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo».

Riflettiamo

Impariamo a soffermarci sulle parole e meditiamone il loro significato

L'importanza della preghiera

Chi prega, certamente si salva; chi non prega certamente si danna. Tutti i beati, eccettuati i bambini, si sono salvati col pregare. Tutti i dannati si sono perduti per non pregare; se pregavano non si sarebbero perduti. E questa è, e sarà la loro maggiore disperazione nell’inferno, l’aversi potuto salvare con tanta facilità, quant’era il domandare a Dio le di lui grazie, ed ora non essere i miseri più a tempo di domandarle

(Sant'Alfonso Maria De' Liguori)

Accrescere la cultura

«Io voglio vivere per Gesù e per la Chiesa. La scienza che serve a farmi vivere sempre più per il Signore e per la Chiesa è la cultura della mia vita e tutta la mia vita di cultura». Ogni giorno, ogni ora, ogni istante io sento il bisogno di accrescere le mie conoscenze. E la Chiesa è una fonte inesauribile di vita e di cultura per me!».

(San Pio da Pietrelcina)

Il dono della Sapienza

Nella Sapienza c’è uno spirito intelligente, santo, unico, molteplice, sottile, mobile, penetrante, senza macchia, terso, inoffensivo, amante del bene, acuto, libero, benefico, amico dell’uomo, stabile, sicuro, senz’affanni. 
Onnipotente, onniveggente e che pervade tutti gli spiriti intelligenti, puri, sottilissimi. 
È un’emanazione della potenza di Dio, un effluvio genuino della gloria dell’Onnipotente, per questo nulla di contaminato in essa s’infiltra. 
È un riflesso della Luce perenne, uno specchio senza macchia dell’attività di Dio e un’immagine della sua bontà.

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Le preghiere dei Santi:

Le preghiere dei Santi:
Noi ci affidiamo a te. Non abbandonarci alla tristezza perché tu, Signore, sei con noi sempre. Tu non ci lascerai un istante. Se non avessi steso la mano, quante volte la nostra fede avrebbe vacillato! Tu, Signore, sei sempre intento ad accogliere le nostre confidenze. Aiutaci a non abbatterci nelle sofferenze fisiche e morali. Non permettere di affliggerci fino a perdere la pace interiore. Fa’ che camminiamo con buona fede, senza inquietudini e sconforti. Noi ci affidiamo a te: prendici la mano e guidaci pur per incogniti sentieri. Insegnaci ad affrontare la prova a mente serena, per amore tuo che la permetti. Donaci di acquistare tesori per la santa eternità. (San Pio da Pietrelcina)

Dio, nostro Padre, tu hai tanto amato gli uomini da mandare a noi il tuo unico Figlio Gesù, nato dalla Vergine Maria, per salvarci e ricondurci a te. Ti preghiamo, Padre buono, dona la tua benedizione anche a noi, ai nostri genitori, alle nostre famiglie e ai nostri amici. Apri il nostro cuore, affinché sappiamo ricevere Gesù nella gioia, fare sempre ciò che egli ci chiede e vederlo in tutti quelli che hanno bisogno del nostro amore. Te lo chiediamo nel nome di Gesù, tuo amato Figlio, che viene per dare al mondo la pace. Egli vive e regna nei secoli dei secoli. Amen.(Venerabile Giovanni Paolo II)

Padre santo e giusto, Signore Re del cielo e della terra, ti rendiamo grazie per il fatto stesso che tu esisti, ed anche perché con un gesto della tua volontà, per l'unico tuo Figlio e nello Spirito Santo, hai creato tutte le cose visibili ed invisibili e noi, fatti a tua immagine e somiglianza, avevi destinato a vivere felici in un paradiso dal quale unicamente per colpa nostra siano stati allontanati. (San Francesco di Assisi)

Tu sei grande, Signore, e ben degno di lode; grande è la tua virtù, e la tua sapienza incalcolabile. E l’uomo vuole lodarti, una particella del tuo creato, che si porta attorno il suo destino mortale, che si porta attorno la prova del suo peccato e la prova che tu resisti ai superbi. Eppure l’uomo, una particella del tuo creato, vuole lodarti. Sei tu che lo stimoli a dilettarsi delle tue lodi, perché ci hai fatti per te, e il nostro cuore non ha pace finché non riposa in te. (Sant'Agostino))

“O Dio di grande Misericordia, bontà infinita, ecco che oggi tutta l’umanità grida dall’abisso della sua miseria alla Tua Misericordia, alla Tua compassione, o Dio, e grida con la voce potente della propria miseria. O Dio benigno, non respingere la preghiera degli esuli di questa terra. O Signore, bontà inconcepibile, che conosci perfettamente la nostra miseria e sai che non siamo in grado di innalzarci fino a Te con le nostre forze, Ti supplichiamo, previenici con la Tua grazia e moltiplica incessantemente su di noi la Tua Misericordia, in modo che possiamo adempiere fedelmente la Tua santa volontà durante tutta la vita e nell’ora della morte. L’onnipotenza della Tua Misericordia ci difenda dagli assalti dei nemici della nostra salvezza, in modo che possiamo attendere con fiducia, come figli Tuoi, la Tua ultima venuta...” (Santa Faustina Kowalska))

Affinché coloro che mi guardano non vedano la mia persona, ma Te in me. Rimani con me. Così risplenderò del Tuo splendore e potrò essere luce per gli altri. La mia luce verrà da Te solo, Gesù, non sarà mio nemmeno un piccolo raggio. Sei Tu che illuminerai gli altri attraverso di me. Ispirami la lode che Ti è più gradita, illuminando gli altri attorno a me. Che io Ti annunci non con le parole ma con l'esempio, con la testimonianza dei miei atti, con lo scatto visibile dell'amore che il mio cuore riceve da Te. Amen. (Madre Teresa di Calcutta))

Signore Gesù, tu hai dato la vita per me: io voglio donare la mia a te. Signore Gesù, tu hai detto: «Amore più grande non c'è che dare la vita per gli amici». Il mio supremo amore sei tu. È sera. Il giorno ormai declina. Resta con me Signore. Voglio seguirti portando la mia croce. Signore, vieni in mio aiuto e guidami nel cammino. La tua voce, Signore, ha un'eco profonda nel mio cuore. Gesù, mio Signore e mio Dio, voglio diventare in tutto simile a te, voglio soffrire e morire con te, per raggiungere con te la gioia della risurrezione. Tu, quel gran Dio che l'universo adora, vivi in me giorno e notte. E sempre la tua voce mi implora e mi ripete: «Ho sete, ho sete di amore»! Anch'io voglio ripetere la tua divina preghiera: ho sete d'amore. Io ho sete d'amore! Sazia la mia speranza, accresci in me, o Signore, il tuo ardore divino. Ho sete d'amore! Quale sofferenza, mio Dio, e come grande! Come vorrei volare da te! Il tuo amore, o Gesù, è il mio solo martirio; perché più brucia d'amore, più desidera amarti l'anima mia. Gesù, fa' che io muoia d'amore per te! (Santa Teresa di Gesù Bambino)