La Pasqua è sempre più vicina e comunque siamo nel pieno del periodo Quaresimale, un periodo di preparazione che ci chiama sempre più alla riflessione e alla preghiera. Oggi, vi proponiamo una Lectio divina quaresimale dell'Arcivescovo Mons. Cesare Nosiglia (qui a fianco) che si sofferma sull'importanza del perdono e del sacramento della riconciliazione, esortadoci ad accostarci alla Confessione prima della celebrazione pasquale:
MOLTO LE È STATO PERDONATO PERCHÉ MOLTO HA AMATO
Il brano della peccatrice di Luca 7,36-50, commovente e ricco di insegnamenti, è un racconto tipico dell’evangelista della misericordia, che vuole rivelarci l’amore di Cristo verso i peccatori. Si tratta di un incontro che avviene nella casa di un fariseo, osservante della Legge, per dirci che Gesù non fa differenze di persone, accoglie tutti e va a casa di tutti: farisei, peccatori, scribi, pubblicani, ricchi e poveri. Ogni occasione è buona per fare visita alle persone ed annunciare il regno di Dio, non solo a parole, ma con i gesti dell’amicizia e della condivisione.
Per l’Oriente partecipare alla mensa comune significa mostrarsi amici e ospitali.
Il fariseo non gli è ostile. Con ogni probabilità era curioso di conoscere quel Gesù di cui tutti parlavano. Ma dimentica alcuni gesti importanti dell’ospitalità, segni usuali di accoglienza e cordia-lità.
Ora nella casa dove si trovava l’ospite potevano entrare come spettatori anche persone non in-vitate. La donna, al centro di tutto il racconto, che entra in quella casa, è, al di là di ogni ragionevole dubbio, una meretrice, e non solo una donna di cattiva fama o una peccatrice, nel senso di una che non osservava la Legge secondo la rigida usanza dei farisei. Il fatto che si sia fatta avanti presuppo-ne che lei pure abbia sentito parlare di Gesù, e che con ogni probabilità si sia già ravveduta dei suoi peccati (non avrebbe potuto, in caso contrario, entrare nella casa del fariseo senza contaminarlo e dare scandalo).
Mostra subito lo scopo della sua venuta ungendo di olio i piedi di Gesù, un’usanza abbastanza comune nei confronti dell’ospite (di norma i servi lavavano agli ospiti i piedi, che poi venivano unti come gesto di benevolenza e di grande rispetto). E mentre il bacio dei piedi è il segno di una grande umiliazione, le lacrime indicano sia il pentimento che la gioia per aver ritrovato la pace interiore dopo il peccato.
Ma ciò che crea scandalo è il fatto che Gesù si lasci toccare da una donna simile («Lui, che si dice profeta, non sa che razza di donna è questa?»). Gesù conosce i pensieri del fariseo, dimostrando così di essere profeta, e racconta la parabola non solo per giustificarsi nei suoi confronti, ma anche per spiegare il comportamento della donna e, di conseguenza, il suo modo di agire.
La parabola è chiara, come esatta è la risposta del fariseo. Il padrone che condona il debito ai due creditori riceve più amore e riconoscenza certamente da quello che gli doveva una somma molto maggiore di soldi rispetto a chi gliene doveva pochi.
Gesù ne trae un insegnamento facendo rilevare il contrasto tra i due atteggiamenti:
- quello del fariseo, che non ha compiuto i gesti della cortesia;
- quello della donna, sottolineandone, invece, il grande amore nei suoi confronti.
Gesù però aggiunge una espressione di sintesi che è il cuore dell’episodio e rivela un fatto sor-prendente del comportamento di Dio verso i peccatori: dice Gesù:
«Le sono perdonati i suoi molti peccati perché molto ha amato».
«Invece quello a cui si perdona poco, ama poco».
All’apparenza possiamo dare al testo due spiegazioni.
1. Alla donna sono perdonati i suoi molti peccati perché con il suo comportamento ha manife-stato un grande amore. Quindi è il suo amore che indica la sua richiesta di essere perdonata e per questo Gesù le dice: «Ti sono perdonati i tuoi peccati».
Le sue lacrime e la sua umiliazione sono espressione di vergogna e di pentimento. Questa in-terpretazione ben si accorda con le parole di perdono di Gesù, che si rivela come «colui che sulla terra ha il potere di rimettere i peccati», un potere che appartiene solo a Dio. E così sono intese an-che dai commensali, che si interrogano: «Chi è mai costui che perdona i peccati?».
Gesù congeda quindi la donna sottolineando che è stata salvata grazie alla sua fede, dando l’impressione che proprio in quel momento essa abbia ricevuto il perdono dei peccati. I gesti di umiliazione della donna hanno manifestato il suo pentimento, ricevendo di conseguenza il perdono delle colpe.
2. Ma questa spiegazione non convince, perché in netto contrasto con la parabola appena rac-contata da Gesù. In essa è il padrone che di sua iniziativa condona il debito, scelta che fa scaturire in chi è stato liberato l’amore. Un amore tanto più grande quanto più lo era il debito così inaspetta-tamente condonato.
Dalla parabola emerge infatti che non è l’amore dei servi la causa del condono, ma che esso è frutto della iniziativa totalmente gratuita del padrone, che ama i suoi servi fino a condonare loro tutto. E come conseguenza essi lo amano, in proporzione della grandezza del debito condonato.
L’amore, anziché essere la causa del perdono, ne è l’effetto e la conseguenza. L’amore è proporzionale alla grandezza del debito così liberamente e gratuitamente condonato. È questo il senso vero della parabola, come anche delle parole di Gesù alla donna. L’amore della donna non è la causa, ma la conseguenza del perdono ricevuto. Potremmo perciò tradurre così il versetto 47: «Le sono state condonate le sue colpe, e per questo essa (come tu vedi) dimostra un così grande amore riconoscente».
Chi si crede giusto e non si umilia nel cuore, non crede in Gesù, e non può quindi ricevere il perdono… e così ama anche poco. Prima viene l’amore di Dio che perdona, e poi l’amore di chi, scoprendosi perdonato, lo manifesta con un reale cambiamento di vita.
Accade lo stesso anche nell’episodio di Zaccheo, che troviamo in Luca 19. Gesù per primo perdona i suoi peccati e lo ama. Zaccheo non aveva chiesto di essere perdonato ma proprio perché si sente accolto gratuitamente, prima ancora di dare segni di conversione, si pente e cambia vita. La sorpresa di essere amato così come è lo fa sentire perdonato e per questo cambia radicalmente la sua vita.
Ugualmente vediamo nella parabola del Padre misericordioso, dove Gesù afferma che: «il Padre lo vide (il figlio) quando era ancora lontano, gli corse incontro e lo baciò». Non è il figlio che vede il padre e corre verso di lui; è il padre che ama, e perciò vede e perdona ancor prima di sapere che cosa il figlio desideri. È questo abbraccio del padre, che ama in modo preveniente, che scioglie il cuore del figlio nella conversione (Lc 15).
E così è per la pecorella smarrita, ritrovata per la costante ricerca del pastore che non vuole as-solutamente perderla (Lc 15; Mt 18).
Certo l’amore e il perdono di Gesù resterebbero inutili se chi li riceve non si pentisse e restasse nel suo peccato. Proprio questo impediva ai farisei di accogliere la salvezza del Signore: il non sen-tire la necessità di essere amati e di accogliere il perdono del Signore.
I pubblicani e le peccatrici, invece, ne sentono il bisogno e lo accolgono con gioia, e per questo sono liberati e salvati.
Questa donna peccatrice, di cui ci viene parlato in Luca 7, esprime con i suoi gesti il ringrazia-mento a Dio per essere stata perdonata. Ciò che l’ha condotta a Gesù non è stato il desiderio di esse-re perdonata dalle colpe, ma di rivelare il suo stato d’animo di peccatrice già perdonata, e per questo gioiosamente riconoscente al Signore per il dono ricevuto («la tua fede ti ha salvata…»).
Nell’Enciclica Deus Caritas est, il Papa Benedetto XVI richiama questa sorprendere realtà dell’amore di Dio che perdona, sottolineandolo come uno degli aspetti primari della rivelazione di Gesù che è già presente nei profeti. Cita il profeta Osea, il cantore dell’amore e del perdono di Dio verso il suo popolo in cui si rivela che Dio è Dio proprio perché non si lascia vincere dal peccato di adulterio del suo popolo, ma lo perdona con un atto preveniente e assolutamente gratuito: «Come potrei abbandonarti Efraim? Come consegnarti ad altri Israele?... Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione. Non darò sfogo all’ardore della mia ira, non tornerò a di-struggere Efraim, perché sono Dio e non uomo; sono il Santo in mezzo a te» (Os ,11,8-9).
L’amore appassionato di Dio per il suo popolo – per ogni uomo – è nello stesso tempo un amore che perdona. Esso è talmente grande da rivolgere Dio contro se stesso, il suo amore contro la sua giustizia. Il cristiano vede in questo il profilarsi velatamente del mistero della croce. Dio ama tanto l’uomo che, facendosi uomo Egli stesso, lo segue fin nella morte e in questo modo riconcilia giustizia e amore (cfr. Deus Caritas est, 10).
LASCIATEVI RICONCILIARE CON DIO
Questo messaggio è sorprendente, scandalizza i farisei e spiazza pure noi, perché mette in crisi la nostra idea di Dio ed il nostro senso di giustizia. “Se pecco e mi pento, ottengo il perdono”: questo schema mentale, logico, razionale, è normale nel concepire il rapporto uomo-Dio.
Gesù, invece, sconvolge questa maniera di pensare ed annuncia che Dio ama per primo e gra-tuitamente, senza richiedere in anticipo la conversione dal peccato. Dio ama, e dal suo perdono na-sce il pentimento e la salvezza in chi lo accoglie.
Del resto tutti ricordiamo il gesto di Gesù che sulla croce perdona quelli che lo hanno crocifisso e lo stanno bestemmiando e insultando. Essi non chiedono di essere perdonati, né dopo che hanno ricevuto il perdono si pentono e cambiano atteggiamento verso Gesù. Eppure lui li ama sinceramente vincendo il male che riceve da loro con un supplemento di amore e di perdono. A chi gli sta to-gliendo la vita egli dona vita e amore.
Questo ci può riempire di felicità, ma ha delle conseguenze sul nostro modo di comportarci verso il fratello che pecca nei nostri confronti: se vogliamo essere figli di questo Dio, che ama gra-tuitamente, dobbiamo comportarci allo stesso modo, perdonando senza attendere la richiesta di chi ci ha offeso. È il senso della richiesta inserita da Gesù nel Padre nostro: «Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori». E ad essa Gesù aggiunge: «perché siate figli del Padre vo-stro celeste ricco di bontà e di misericordia verso tutti».
La gratuità del perdono di Dio verso i peccatori rappresenta il cuore del Vangelo. L’apostolo Paolo afferma nella Lettera ai Romani: «Dio dimostra il suo amore verso di noi, perché mentre era-vamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi…» (5,8), come pure nelle lettere ai Corinzi, dove l’essere nuove creature, santificati e redenti dal sangue di Cristo, è riferito al dono preveniente della riconciliazione operata da Dio in Cristo: «Tutto questo viene da Dio, che ci ha riconciliato a sé me-diante Cristo, e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione. È stato Dio, infatti, a riconciliare a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione. Noi fungiamo dunque da ambasciatori per Cristo, come se Dio esortasse per mezzo nostro. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio. Colui che non aveva co-nosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio» (2 Cor 5, 18-20).
L’appello di Paolo è forte e appassionato. Poche volte l’apostolo si rivolge con questi accenti ai suoi cristiani. Sembra quasi che li voglia scongiurare per una cosa assolutamente necessaria. Si tratta di permettere a Dio di donare loro la grazia della riconciliazione, il dono della redenzione compiuta per loro in Cristo Gesù.
In primo piano è dunque posta l’opera di Dio, la sua volontà di salvezza nei confronti di ogni uomo, chiamato a riconoscere e ad accogliere il dono gratuito e sorprendente di un amore che lo precede, e a non opporre ostacolo all’azione della grazia.
La disponibilità e l’apertura del cuore e della vita alla riconciliazione è necessaria da parte dell’uomo, ma non è il primo passo, che resta prerogativa ed opera di Dio misericordioso e fedele. Lui ama per primo, desidera salvare, offre il suo perdono. E lo compie mediante un’azione incredi-bile: tratta da peccato Colui che era senza peccato, Cristo suo Figlio. Trattare da peccato significa che lo chiama a farsi solidale fino in fondo con noi peccatori, affinché noi possiamo diventare soli-dali con Lui nella salvezza che ci offre.
Tutto questo avviene nel sacramento della riconciliazione che è la seconda tavola di salvezza, dopo il Battesimo, vera creazione nuova, che cambia radicalmente la nostra vita e la innesta nuo-vamente in Cristo, perché possa dare frutti di bene e di giustizia. Quando celebriamo il sacramento della riconciliazione, noi permettiamo a Dio di esercitare il suo grande amore di misericordia verso di noi; gli offriamo la possibilità di perdonarci e di gioire perché c’è più gioia in cielo per un peccatore che si converte che per novantanove giusti che pensano di non aver bisogno di penitenza.
E Gesù ha deciso che sia la sua Chiesa a donarci la certezza della liberazione dal peccato: come nessuno si può dare la vita o la guarigione da una terribile malattia da se stesso, così non ci si può dare la salvezza e la liberazione dal male da soli. Occorre la forza dello Spirito e le vie che il Signore ci offre nella sua Chiesa che ci permettano di partecipare alla sua Pasqua di risurrezione e di vita nuova.
Non è facile oggi riconoscerci peccatori sia perché siamo sempre portati a giustificare le nostre colpe quasi fossero debolezze inevitabili della nostra umanità debole, sia perché il peccato è visto solo come un male che fai agli altri e non a te stesso. Invece il peccato è anzitutto una autodistru-zione di te stesso, delle tua libertà che viene svenduta al male e non produce frutti di bene ma di malvagità e infedeltà a quanto la coscienza e la legge di Dio ci indicano con chiarezza.
All’inizio della Messa diciamo sempre tutti, da me vescovo ai sacerdoti e a voi cari giovani: «Confesso a Dio e ai fratelli che ho molto peccato in pensieri, opere e omissioni». È una confessione pubblica personale davanti a tutti e un riconoscerci peccatori perché nessuno può dire di essere santo e giusto e se dice di essere senza peccato è un bugiardo.
Ci ricorda Papa Giovanni Paolo II: «La vita spirituale e pastorale del sacerdote, come quella dei suoi fratelli laici e religiosi, dipende, per la sua qualità e il suo fervore, dall’assidua e coscienziosa pratica personale del Sacramento della Penitenza. La celebrazione dell’Eucaristia e il ministero degli altri Sacramenti, lo zelo pastorale, il rapporto con i fedeli, la comunione con i confratelli, la collabo-razione col Vescovo, la vita di preghiera, in una parola tutta l’esistenza sacerdotale subisce un ineso-rabile scadimento, se viene a mancarle, per negligenza o per qualsiasi altro motivo, il ricorso, periodico e ispirato d’autentica fede e devozione, al Sacramento della Penitenza. In un prete che non si confessasse più o si confessasse male, il suo essere prete e il suo fare il prete ne risentirebbero mol-to presto, e se ne accorgerebbe anche la Comunità, di cui egli è pastore». Per cui – aggiungo io – guai se in quanto cristiano, sacerdote e vescovo non mi confessassi.
Una confessione regolare (se possibile con un Maestro dello spirito che ci segua con continuità) e, nei tempi forti, preceduta da un congruo tempo di conversione (riflessione sulla Parola di Dio, preghiera, digiuno, penitenza ed elemosina… le consuete vie che la Chiesa suggerisce ai peccatori), ci assicura una sponda sicura, alla quale ancorarci anche se presi dalle nostre debolezze, che ci per-mette di non soccombere all’indifferenza delle colpe, all’orgoglio di sentirsi a posto o allo scorag-giamento di chi si convince che, in fin dei conti, non serve confessarsi sempre delle stesse mancanze.
Non dobbiamo mai dimenticare, infine, che i nostri peccati personali incidono pesantemente sulla comunione nella Chiesa. Esiste infatti tra noi una solidarietà nel bene, ma c’è anche una soli-darietà nel male, che si alimenta delle nostre colpe e produce divisioni profonde nelle famiglie e nelle comunità. Il male genera sempre male e come una peste si diffonde e contagia le altre persone e la comunità e società. Per cui dobbiamo sempre sentirci un po’ responsabili del male che c’è nel mondo perché esso si alimenta anche attraverso i nostri peccati. Se ce ne liberiamo aiutiamo il bene a crescere in noi e attorno a noi fino ad essere più forti di ogni male di cui subiamo a volte il fascino e la tentazione. In qualche modo la celebrazione del sacramento della riconciliazione non resta chiuso dentro la nostra vita personale ma diventa forza di cambiamento anche familiare e comunitaria e contribuisce a pacificare il mondo e ad aprirlo all’amore, alla giustizia e alla pace per tutti.
IN SINTESI
Questa riflessione sul perdono e sul sacramento della riconciliazione è ricca di consolazione e di speranza. Ci fa comprendere che siamo amati e cercati dal Signore e da Lui costantemente arricchiti della sua grazia, nonostante le nostre debolezze.
Ogni volta, infatti, che penso alla mia vita e mi preparo a confessare i miei peccati nel sacra-mento, come pure quando confesso qualche fedele, mi risuonano dentro il cuore le dolci parole che Cristo dice all’apostolo Paolo, che si lamenta di non poter liberarsi da quella spina conficcata nella carne, quel messo di Satana, come egli lo chiama, incaricato di schiaffeggiarlo, perché non vada in superbia: «Ti basta la mia grazia; la mia potenza si manifesta pienamente nella debolezza» (2 Cor 12,9). Come dire: ricorri alla mia grazia, se vuoi essere forte e usufruire della mia potenza.
Che il Signore ci renda sempre consapevoli che, se ci fidiamo del suo amore e lo celebriamo con gioia, nel sacramento della riconciliazione, quando riconosciamo d’essere deboli, diventiamo forti e niente può allora farci paura: il male sarà sconfitto in noi e mediante la nostra buona volontà negli altri e negli ambienti in cui viviamo e operiamo.
PREGHIAMO
Salmo 50
Pietà di me o Dio secondo la tua misericordia
IMPEGNO
Prepariamoci bene a celebrare il sacramento della riconciliazione prima della Pasqua e dopo es-serci confessati operiamo il bene impegnandoci verso qualche persona, in famiglia o in parrocchia o a scuola e nella società per testimoniare la gioia del perdono ricevuto, perdonando o lavorando perché si ristabiliscano rapporti di pacificazione e di accoglienza tra persone che conosciamo e che vivono momenti di difficoltà e di separatezza o rifiuto tra loro.
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